Mario Monti e la lotta di classe

di Zenone Sovilla

Ieri, il presidente del consiglio Mario Monti, al fine di ribadire sostanzialmente - tanto per cambiare - che nel libero mercato le norme a tutela dei lavoratori possono avere effetti sconvenienti (anche) per gli interessati, ha rispolverato un suo vecchio intervento del 1985.

Vien fatto di osservare che in questi quasi trent'anni qualcosa è cambiato, che si è via via notevolmente indebolito - anche in Italia - il quadro legislativo orientato alla garanzia della forza lavoro di fronte alla tracotanza delle imprese. Che ha preso corpo una potente guerra ideologica totale condotta dai circoli nazionali e internazionali economicamente dominanti (che il premier conosce bene), con il fervente supporto di larga parte della politica e del mondo accademico, che alla bisogna può fornire anche fedeli interpreti "tecnocratici" di governo delle tesi neoliberali.

Dalla Thatcher a giovani-vecchi rampolli italici del 2012 targati Pd, passando per decadenti Cavalieri "invicibili" e confusi piazzisti riciclati del "si può fare", tutti allegramente ispirati dal credo liberista per cui solo privatizzare è sempre bello.

Un credo venduto da un trentennio come se fosse una teoria scientifica (o la fine della storia, direbbe qualcuno), non semplicemente un'idelogia, piuttosto vecchia e malconcia, ripresa con forza negli anni Settanta per avviare una controffensiva dopo i decenni di emancipazione sociale (compresa la prospettiva di un parziale riequilibrio nella redistribuzione dei redditi e nei rapporti di forza fra capitale e lavoro) che avevano caratterizzato il dopoguerra in buona parte dell'Occidente.

Poi, con l'imporsi nella realtà quotidiana del disegno neoliberale sostenuto dal "progetto politico" (come lo definisce Luciano Gallino) della globalizzazione, dall'emancipazione si è passati alla precarietà esistenziale, ma in uno scenario subdolo nel quale si è cercato di spacciare questo arretramento collettivo come una ineluttabile conseguenza degli equilibri mondiali che offriva agli individui una nuova "libertà" di stare sul mercato, una svolta epocale, tutta luccicante, sorrisi e spot in tv. Tutti ugualmente liberi e sulla stessa barca, padroni e operai, ricchi e poveri: incredibile ma vero, anche questa bufala ha funzionato, mentre via via i dati sulla distribuzione dei redditi dimostravano, anno dopo anno, che (anche in Italia) i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e condannati ad ammalarsi di più e a una vita più breve. Le nuove diseguaglianze sociali, infatti, come dimostrano valanghe di dati empirici, corrono anche sul filo tragico del diritto alla salute e a non morire prima del tempo a causa delle condizioni economiche o lavorative cui si è condannati dal libero mercato (assai significativo, in proposito, il confronto dello scenario britannico prima e dopo la "cura" liberista targata Thatcher).

Ma di tutto questo l'Italia delle eterne discussioni sul posizionamento dell'Udc e di Vendola a seconda della legge elettorale, non ha tempo per ragionare.

 

Giusto per menzionare un altro ingrediente di questa costruzione ideologica, basata sull'abbattimento delle norme che mitigano gli effetti nocivi (sulle persone e sull'ambiente naturale) della competizione economica, ricordiamo gli anni d'oro delle "delocalizzazioni", con le imprese a caccia di contesti industriali sempre più favorevoli (minor costo del lavoro, favori fiscali, leggi morbide sulla produzione, sull'inquinamento eccetera eccetera) e forti di un potere ricattatorio nei riguardi dei Paesi minacciati di rimanere orfani (e dunque a loro volta indotti ad arretramenti normativi, in un infernale circolo vizioso).

 

Il tutto, dentro un'apoteosi di accumulazione di potere e spoliazione delle più elementari dinamiche democratiche (la fossilizzazione delle parassitarie "caste" politiche non è casuale, in questi opachi processi evolutivi dei rapporti di forza).

 

Il quadro si amplia se vi aggiungiamo il disastro sociale derivante dalla finanziarizzazione speculativa dell'economia, altro piccolo effetto collaterale della deregolamentazione cara ai tecnocrati che non imparano nemmeno dai loro stessi errori e dalla crisi devastante in atto, probabilmente perché di errori non si tratta, ma di precisi disegni di potere che contemplano un pesantissimo costo sociale previsto e accettato (tanto lo pagano sempre gli altri).

Sarebbe auspicabile che costoro, per decenza, evitassero almeno di rifilare al "popolo bue", tra le varie fandonie sulle cause del dissesto, l'ignobile storiella sui figli vittime dell'egoismo dei padri: questo non è uno scontro fra generazioni, ma il fallimento di un'ideologia.

Certo, se la si guarda con gli occhiali del 1985, forse può sembrare ancora una bella promessa; ma se la si osserva a ritroso, dal 2012, non dovrebbero sfuggire i cadaveri lasciati sul campo. Altrimenti, nella migliore delle ipotesi si tratta di un caso allarmante di miopia.

 

Urgono, piuttosto, corretivi pragmatici a queste enormi falle ideologiche, che difficilmente saranno riconosciute e riparate dai loro stessi padri devoti.

 

Per chi vorrà approfondire l'argomento c'è solo l'imbarazzo della scelta, segnalo tuttavia qui un libro assai utile, un'intervista di Paola Borgna a uno dei più seri e onesti studiosi italiani, il sociologo torinese Luciano Gallino: il volume si intitola La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, 2012) e in sintesi tende a dimostrare, dati alla mano, che mentre per anni si diffondeva la vulgata secondo la quale "le classi non esistono più", una di esse, quella economicamente dominante, metteva in atto una battaglia spietata per riguadagnare il terreno perduto nei decenni precedenti.

Afferma Gallino: "In sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente".

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