Il «furto» dell'A22: cornuti e mazziati

di Renzo Moser

Qualche anno fa, Reinhold Messner, allora europarlamentare dei Verdi, veniva annoverato tra i «nemici» dell’Autostrada del Brennero, convinto com’era della bontà della soluzione della gara pubblica ed europea per l’assegnazione delle concessioni autostradali. Nella prassi delle proroghe, peraltro molto diffuse, riscontrava invece un rischio concreto per l’ambiente e la tutela del territorio, visto che spesso si vincolava il prolungamento della concessione in essere alla realizzazione di nuovi collegamenti autostradali. Quello che è successo, tanto per non fare nomi, alla «Serenissima», il che spiega la ferrea determinazione dei vicini veneti nel perseguire l’obiettivo Valdastico Nord, da cui dipende il loro futuro societario.
Oggi tutti abbiamo capito, a nostre spese, che i «nemici» sono altri. Anzi, che l’«arcinemico», quello vero, non sta a Bruxelles né a Strasburgo, ma a Roma, nei corridoi forse meno nobili dei ministeri coinvolti nella vicenda A22. L’infinita «querelle» sulla concessione dell’Autostrada del Brennero ci sta infatti insegnando questo. E cioè che gli azionisti della società, costituiti in gran parte dagli enti territoriali (e dietro ad essi le popolazioni, che ai 314 chilometri dell’arteria hanno sempre pagato un pedaggio pesante in termini di consumo del territorio e inquinamento acustico e ambientale) si sono ritrovati al tavolo del confronto con una controparte governativa non affidabile, che si è sempre fatta scudo delle norme europee, in altri contesti bellamente ignorate, quando non infrante deliberatamente,  per perseguire altri obiettivi. L’ultimo dei quali, come è evidente, è quello di impossessarsi delle risorse finanziarie accantonate dall’Autobrennero per finanziare il tunnel di base.
Appare infatti legittimo chiedersi, dopo gli ultimi accadimenti, e soprattutto dopo la nota del ministero delle Infrastrutture pubblicata sull’Adige di ieri, se a Roma abbiamo trovato un interlocutore leale e credibile o l’ennesima congrega di furbetti pronta a fare il gioco delle tre carte per impadronirsi di un tesoretto di oltre mezzo miliardo di euro.
Il presidente della Provincia, Lorenzo Dellai, a questo proposito ha usato parole molto dure, parlando apertamente di una rapina di Stato. Difficile dargli torto, questa volta, quando si legge, nella nota ministeriale, che «giuridicamente non vi è alcuna connessione tra l’affidamento della concessione e la destinazione del fondo autostradale per la nuova ferrovia del Brennero».
Per capire la portata di una tale affermazione dobbiamo andare un po’ indietro nel tempo, a fine anni Novanta. Non capitava spesso - allora come oggi - che l’Italia si distinguesse per modelli innovativi e per certi versi rivoluzionari nell’ambito dei trasporti e della tutela dell’ambiente. Lo fece con il cosiddetto «modello Brennero»: un’intuizione semplice e geniale a un tempo, che pareva destinata non solo a lasciare il segno, ma a tracciare una vera e propria strada sul fronte delle infrastrutture dei trasporti.
La legge finanziaria approvata dal governo Prodi sul finire del 1996 autorizzava l’esecutivo a prorogare la concessione dell’A22 vincolandola a condizioni da definire. Erano gli anni, è bene ricordarlo, in cui l’intero settore autostrade italiano affrontava lo spinoso problema del rinnovo delle convenzioni stipulate con l’Anas. Intervenne, nel 1998, la cosiddetta «direttiva Costa-Ciampi» (il primo era ministro dei Lavori Pubblici, il secondo era titolare del Tesoro), in base alla quale, tra il 1999 e il 2000, vennero perfezionati i rinnovi di quasi tutte le società autostradali. Con alcune, rare eccezioni. Tra queste, l’Autostrada del Brennero.
La quale, tuttavia, trovò una propria strada. Una seconda legge finanziaria, sempre firmata dal governo Prodi (Legge 27.12.1997 n. 449) stabiliva che «a decorrere dal 1° gennaio 1998 la società Autostrada del Brennero Spa è autorizzata ad accantonare, in base al proprio piano finanziario ed economico, una quota anche prevalente dei proventi in un fondo destinato al rinnovo dell’infrastruttura ferroviaria attraverso il Brennero e alla realizzazione delle relative gallerie». Il piano economico-finanziario citato venne elaborato su un arco temporale molto lungo. Era il cosiddetto «piano pesante», relativo agli anni 1998-2060, in base al quale già a fine 1999 la società di via Berlino aveva accantonato 150 miliardi di lire. Una scelta rivoluzionaria, come detto: una società che macina utili grazie al trasporto su gomma accetta da un lato di rinunciare a gran parte degli utili e dall’altro di utilizzare quei soldi per finanziare un progetto che mira a togliere camion dalla strada, colpendo direttamente il proprio core business. Insomma: rinuncio ai guadagni per finanziare un concorrente che in futuro mi farà guadagnare meno. Una pazzia? Forse lo sarebbe stata per un investitore privato. Ma per degli enti territoriali era invece un’opzione lungimirante, che tutelava ambiente, popolazioni e territorio, che penalizzava i trasporti più inquinanti.
Un «modello», insomma, di cui andare fieri e da esportare in Europa.
Già nel 2000, però, il governo impose una rimodulazione del piano, che non doveva superare i 30 anni. La nuova concessione avrebbe avuto scadenza nel 2035. Le cose non sono andate così, e non è il caso di ripercorrere l’intera vicenda. Quel che rimane è che l’A22 ne è uscita cornuta e mazziata, mentre il sogno di un modello alternativo di finanziamento delle infrastrutture e di politica dei trasporti si è infranto contro la miopia governativa. E adesso si rischia la beffa finale, con il ministero intenzionato a sfilare dalle casse della società gli utili accantonati negli anni (e chi ci assicura che queste risorse, una volta incamerate dall’Anas, verrebbero effettivamente utilizzate per la ferrovia del Brennero e non dirottate altrove?). Intendiamoci, può essere che i «mandarini» ministeriali abbiano le loro buone ragioni giuridiche per dire che non vi è connessione tra il fondo pro ferrovia e la concessione autostradale
E in ogni caso i rapporti tra le due parti in causa non dovrebbero ridursi a un duello da azzeccarbugli, tutto giocato sui formalismi giuridici. Dovrebbero invece essere improntati ad una elementare lealtà istituzionale. Un’utopia, anche in tempi di governi tecnici.

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