La crisi: riformismo redistributivo o minestre riscaldate?

di Zenone Sovilla

La proposta (provocazione?) del premiersocialista greco George Papandreou di un referendum sul piano disalvataggio anticrisi del debito, ancorché fuori tempo massimo e poicancellata dall'agenda, da un lato ha scatenato una certa isteriadiplomatica e finanziaria ma dall'altro ha messo virtualmente il ditosulla piaga della grande madre dei tempi bui che stiamoattraversando: il processo ultraventennale di arretramento dellapolitica dal terreno delle dinamiche economiche (e dai loro riflessisociali) in virtù di una asserita fiducia scientifica nelle dotidella "mano invisibile" del mercato.

L'imporsi delle ricette di matriceneoclassica, dell'onda lunga dei Chicago Boys ispiratrice del Fondomonetario internazionale e in generale di dottrine liberiste cheattribuiscono cieca fiducia alle cosiddette leggi del mercato, hagenerato un crescente deficit di democrazia politica ed economica.

Largamente supportato negliambienti accademici, giornalistici e politici (al punto da renderespesso indistinguibili le visioni economiche di schieramentiformalmente contrapposti) questo modello economico si è tradotto,sostanzialmente, nell'applicazione della legge del più forte secondocriteri imposti in genere da chi godeva, in partenza, di irriducibilicondizioni di vantaggio.
Una vera e propria colonizzazionedell'immaginario collettivo è stata poi alimentata incessantementeda soggetti - opinion maker nelle salse più disparate - che dalleloro torri d'avorio di una (non)rappresentanza politica ridotta acasta, di uno scranno professionale retribuito lautamente e concertezza, predicano la massima deregolamentazione e concorrenza,compresa la conseguente flessibilità (leggasi precarietàesistenziale a tempo indeterminato) degli esseri umani, lavoratori econsumatori.

Questa ideologia fondamentalista,diventata un persistente mantra degli ani '90 e 2000, ha registratovia via una rimarchevole penetrazione istituzionale in molte areestrategiche del vivere civile: sanità, scuola, previdenza, energia,trasporti finanche nella stessa democrazia rappresentativa,interpretata da non pochi protagonisti (rottamatori o sfasciacarrozzeche siano) secondo dinamiche e metafore evocative del mondoindustriale (fino alla ben nota iperbole dell'«amministratoredelegato dell'Italia» o per meglio dire, forse «padrone» ).
Oggii dati empirici dimostrano - come peraltro facevano da tempo, bastavavolerli studiare - i fallimenti di questi modelli economici esociali, ma gli innumerevoli divulgatori del mantra, lungi dalmettere in dubbio l'integralismo mercantile, tentano di rigirare lafrittata, come a dire che la responsabilità della devastazione umanain atto su scala planetaria (non apriamo qui la sempre piùcomplicata parentesi del divario Nord-Sud del mondo) è degliinterventi distorsivi degli Stati e della loro ancora insufficientefiducia nella Bibbia del modello domanda e offerta scolpito sullapietra.

Insomma, bisogna insistere su questastrada e i benefici sociali arriveranno, pazienza se nel frattempo(di durata indefinita) a goderne è solo una piccola minoranza.

Nel contesto della polemica conSartre, Albert Camus ebbe più o meno a dire, fra l'altro, aproposito dello stalinismo, che se la transizione verso un sistemalibero e giusto (il pane e la libertà...) prevede anni o decenni didispotismo e vittime umane, essa non è accettabile, tantomeno da unprogressista libertario.
Si potrebbe mutuare il ragionamento diCamus in relazione ai fallimenti documentati delle ricette economicheneoliberiste globali: se in vent'anni queste politiche hanno prodottosostanzialmente un arretramento delle condizioni di vita in settorimaggioritari accentuandone il divario nei riguardi dei più abbienti,non possiamo certo parlare di un sistema ideale a fini sociali dicoordinamento delle scelte dei soggetti economici.

Senza dilungarci nellasignificativa quantità di dati empirici disponibili, e limitandocial nostro Paese, da buoni “Robin Hood” possiamo qui richiamare lecifre diffuse meno di un anno fa da Bankitalia sulla distribuzionedella ricchezza: il 10 per cento delle famiglie ne possiede il 45 percento; e c'è una metà della popolazione che ne detiene soltanto il10%.

Quanto all'Istat, nel rapporto deldicembre 2010 fotografava un quadro preoccupante degli indicatori dideprivazione e di difficoltà economica, evidenziando fra l'altro chepiù di un terzo del reddito totale percepito nel 2008 (37,5 percento) è andato al 20 per cento più ricco delle famiglie, mentre il20 per cento delle famiglie con i redditi più bassi ha potutocontare solamente sull’8,3 per cento.
Come detto, molti altriindicatori internazionali segnalano i gravi fallimenti sistemici inambito sociale e redistributivo delle politiche liberiste, compresipurtroppo quelli su morbilità e mortalità: chi ha (sempre) menoaccesso al reddito si ammala di più e muore prima.

Un altro fronte significativo sonogli effetti collaterali della deregolamentazione economicasull'ambiente naturale e quindi anche sulla salute umana (in partediseguali anche in questo caso gli effetti: i più ricchi sono spessomeno esposti ad alcuni fattori di rischio, per esempiol'inquinamento, perché vivono in aree più protette e comunque hannoa disposizione le risorse finanziare da utilizzare in spese di tipodifensivo rispetto ai fattori di rischio).

In linea generale si può affermareche i propagandisti del fondamentalismo liberista hanno occultatoscientemente i costi sociali del mercato, fenomeno già analizzato enoto in letteratura sin dalla metà del secolo scorso.

Costi che peraltro sono piuttostointuitivi: accentuare la deregolamentazione dell'attività d'impresasignifica favorire comportamenti che, per massimizzare i profitti,producono effetti collaterali negativi sulla società umana esull'ambiente naturale. In altre parole, a deboli normative pubbliche(e controlli) sulle azioni degli attori nel mercato corrisponde iltrasferimento di costi dalle imprese alla collettività.

Ad esempio, un'industria che percontenere le sue spese di gestione inquina l'acqua o l'ariatrasferisce impunemente all'esterno (su noi tutti, o quasi....) costitraducibili in danni alla salute umana e alle risorse naturali conconseguente necessità di interventi pubblici (laddove leconseguenze non siano irreversibili), in questo caso, in ambitosanitario e di risanamento ambientale.

La questione, naturalmente è complessama è interessante notare quantomeno che questi costi sostanzialmentenon sono computati puntualmente nei bilanci statali: un macroscopicofallimento del libero mercato diventa del tutto trasparente agliocchi dell'opinione pubblica che – al contrario – è sottopostada decenni alla martellante propaganda liberista, al punto dadesiderare la massima deregolamentazione e da perdere di vistacorrelazioni evidente fra causa ed effetto di una serie di criticitàesiziali della nostra epoca. Per un approfondimento del tema rimandoa questa, datata ma attualissima, intervista con lo studiosobolzanino Pietro Frigato dedicata allo scienziato tedesco KarlWilliam Kapp.


In questa prospettiva crolla anche ilmito – tuttora celebrato da una vasta schiera di rètori delmercato – del regime di massima concorrenza.

Anche in questo caso, la realtàempirica conferma un'impressione diffusa: se da un lato i sacerdotidel culto liberista ripetono la cantilena che ci vuole piùconcorrenza (anche privatizzando beni comuni quale l'acqua) per staretutti “meglio” e essere più “competitivi”, dall'altro siignorano i rischi devastanti implicati da un tale modello.

Se, infatti, si può ragionevolmenteritenere che la collettività dei consumatori possa godere di unprezzo più vantaggioso con l'aumentare della concorrenza frasoggetti che correttamente offrono il medesimo prodotto (il cheperaltro è già vero solo in parte), non va tralasciato (come invecefa sistematicamente il pensiero main stream) che per perseguire lariduzione del prezzo praticato, le imprese possono essere indotte acomportamenti che generano costi sociali (eludere normative sullasicurezza o sull'inquinamento ambientale, peggiorare le condizioni dilavoro delle proprie maestranze, leggasi precarietà e atipicitàcontrattuale, rifilare ai consumatori merci non corrispondenti allaqualità dichiarata eccetera eccetera).

E anche l'impresa più sinceramentedisposta a confrontarsi con onestà in un regime di concorrenzaperfetta scoprirà presto che esso esiste solo nella testa di qualcheteorico e dei suoi milioni di megafoni: se il tuo avversario abbattei prezzi perché inquina e sfrutta brutalmente la manodopera senzache nessuno lo fermi, tu avrai due scelte, fare un po' come lui olasciarlo vincere.

Anche qui il discorso è lungo, perciòrimando a questo articolo chi volesse approfondire.

Tutto questo per dire che già moltidecenni fa, volendo, si sapeva con certezza dove ci avrebbe portatoil treno del thatcherismo o della reaganomics; si conosceva anche il pensiero di numerosi e seri scienziati e politici di formazionesocialdemocratica vera (non certa poltiglia riciclata che c'è ingiro oggi, magari pure con sguaiate pretese di giovanilismo). Essi, non a caso, avevano suggerito nel corso dei decenni, a classi dirigenti sensibili, una serie puntale di correttivi deifallimenti del mercato, proprio per attutire tramite la normativa, lafiscalità e i controlli pubblici, l'impatto delle imprese sullaqualità della vita dei cittadini (e del mondo naturale).

All'improvviso i fondamentalisti del mercato iniziato araccontarci la balla che quelle politiche "moderate" erano robaccia d'altritempi e che l'unico futuro possibile stava in una parola ormaiabusivamente deturpata da questo ventennio di becera propaganda incui i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri:libertà. Poveri noi.

Ora in giro per il mondo c'è un certorisveglio culturale e politico di fronte ai palesi fallimenti delmercato nella declinazione dell'ortodossia liberista, tanto cheparole d'ordine che dieci anni fa erano solo di quei poveri illusi diun altro mondo possibile (come la tassa sulle transazionifinanziarie) richiamano l'interesse di una fetta significativa dellatecnocrazia occidentale.

E tuttavia lascia abbastanza perplessiche al patatrac macroscopico che stiamo vivendo si tenda ancora arispondere con l'ectoplasma delle stesse (non) politiche che lo hacausato: privatizzazioni, deregolamentazioni, svuotamento del potere contrattuale dei lavoratori, contrazione generalizzata del settore pubblico eccetera.

La sensazione è che ci sia untentativo disperato di alzare una cortina fumogena attorno alle verecause del dramma globale in atto (fatta salva qualche eccezione perPaesi che ora vivono un'illusoria ubriacatura da boom economico) .

In Italia, per esempio, dove (fral'altro) l'assenza di politiche serie di redistribuzione del redditogenera il crescente divario cui accennavo all'inizio (negli ultimivent'anni mentre Berlusconi e molti suoi amici si sono arricchiti,buona parte della popolazione ha perso potere d'acquisto e si èvista trascinata suo malgrado in una guerra fra poveri), parrebbepacifico riconoscere che un correttivo essenziale è l'introduzionedi una tassa sui patrimoni, per rivolgersi principalmente, perl'appunto, a quel 10% che detiene la metà della ricchezza nazionale.Nulla di scandaloso, un'ovvietà politica verrebbe da dire. Quasi undovere etico.

E invece, da mesi si balbetta con ungoverno che insiste nel suo rifiuto anche di fronte a misure di buonsenso come questa e vara piuttosto provvedimenti che colpisconoindiscriminatamente la generalità dei cittadini (come l'aumentodell'aliquota Iva standard) o che tendono a favori proprio i furbettiin attesa di condono.

Senza farla ancora troppo lunga, c'èda augurarsi che qui da noi (e altrove) si metta in cantiere unaprofonda elaborazione di riforme serie, capaci di indicare la via versomodelli economici e sociali che restituiscano al rispetto della vitain tutte le sue forme una centralità che la politica negli ultimianni spesso ha sacrificato sull'altare del primato di un'ideafanatica, assolutistica e fallimentare del mercato; un'idea che auspicabilmente va sostituita con una sua sorella "moderata".

Si tratta di inventare nuovi sistemi disostenibilità anche attingendo a quanto di buono si trovava inesperienze consolidate (quali le socialdemocrazie nordiche) troppofrettolosamente condannate da chi voleva fare piazza pulita e inquesti anni di Far West probabilmente si è arricchito migliorando lasua preesistente agiatezza

Il momento richiede una svoltariformista che reinterpreti le storiche istanze di giustizia sociale adeguandole ai nostri tempi; ciò di cui invece non abbiamo bisogno è la velenosa minestra riscaldata del liberismo.

E c'èda augurarsi che le classi dirigenti - a tutti i livelli di rappresentanza - se ne facciano una ragione;altrimenti non ci rimarrà che piangere.


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