Caccia e inutili sofferenze

di Gloria Canestrini

Domenica stavo scrivendo questo blog, e mi documentavo sulle spese militari. In particolare, sullo stanziamento di nuovi fondi per gli armamenti contenuti nella recente manovra finanziaria, ed ai commenti che corrono sul web a tale proposito. Improvvisamente, uno sparo ha squarciato il silenzio, e poi, di seguito una gragnuola di colpi, proveniente dal bosco sopra casa. Un fuoco d’artificio in pieno giorno! Mentre i cani abbaiavano furiosamente, ho impiegato qualche secondo a realizzare che no, non era in corso un’azione di guerra vicino a casa, ma si trattava solo di caccia. Così, chiuso il dossier sulle recenti commessemiliardarie di elicotteri e panzer (vi ritroverete la faccenda in un prossimo blog), la mia attenzione è scivolata inevitabilmente sul tema della caccia. Tanto per rinfrescarmi la memoria, ho consultato in Internet il calendario del periodo venatorio,per sapere fino a quando durante le nostre camminate in montagna dovremo intonare canzoni a squarciagola.

«Mi spaventa i caprioli», ha avuto il coraggio di redarguirmi, un giorno, un tizio armato fino ai denti, vestito con una tuta mimetica da guerra. «Mi spiace», ho replicato, sempre a voce altissima: «Amo la montagna e le sue canzoni!». Lo sguardo del guerriero si è fatto torvo, ma il divieto di cantare nel bosco non è ancora stato inventato. Ora che mi devo documentare, quale fonte migliore dei cacciatori stessi? Consulto, quindi, il sito dell’Associazione cacciatori trentini, dove troneggia l’immagine di uno splendido cerbiatto (vivo) e qui il cuore mi da un balzo. Non già per il cerbiatto, che pare in ottima forma, ma per la lunga dissertazione che trovo sugli uccelli da richiamo. Non è possibile! Questa pratica barbara è quindi tornata in vigore. Sasselli e cesene, merli e tordi rinchiusi in gabbia affinché il loro canto disperato (opportunamente arrestato tenendoli al buio in primavera e spostato artificialmente all’autunno, come spiegato nel sito) possa richiamare potenziali prede. La carneficina inizia subito, con la morìa di uccelli prigionieri.

«Le perdite comunque non sembrano imputabili a traumi di cattura o allo stress della prima stabulazione» recita lo scritto sul sito in parola, «ma piuttosto ad un qual certo stato di sofferenza già rilevabile nei soggetti al momento della cattura». Perbacco, che notizia! Dev’essere proprio così: le selve sono piene di pennuti ansiosi, indubbiamente stressati dalla loro vita libera, allo stato naturale. Una simile situazione di sofferenza rende del tutto ininfluente un eventuale passaggio allo stato di prigionia: chissà, magari il tono dell’umore dei soggetti interessati potrebbe anche migliorare. A ben vedere, l’affermazione che ho appena letto potrebbe suonare come una metafora (sia pure involontaria) della attuale condizione della specie umana, e non solo di quella degli uccelli.

Per rimanere in argomento, consulto la normativa. A onor del vero, una direttiva comunitaria, la n.79/404, consente l’uso di richiami vivi per l’attività venatoria. E’ anche vero, però, che l’Unione Europea concede ad ogni singola regione di decidere se permetterne l’uso o meno. L’obiettivo della normativa comunitaria, infatti, è la graduale diminuzione di questi anacronistici metodi di cattura in deroga, verificando prima la possibilità di ricorrere a soluzioni alternative alla cattura come l’allevamento. Insomma: se caccia dev’essere (e qui lascio spazio ai vostri commenti, sicuramente variegati come le magnifiche piume arancioni e olivastre del tordo sassello), che questa attività escluda almeno le pratiche che provocano inutili sofferenze. Sia per le bestiole, che per noi, ammiratori incondizionati delle meraviglie animali e consumatori silenziosi del nostro ambiente naturale (canzoni a parte, s’intende!).

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