I diritti dei malati sono sacrosanti

di Gloria Canestrini

Nel raccogliere i dati dei molti medici che intendono promuovere azioni collettive per il giusto riconoscimento economico degli anni di tirocinio, mi capita spesso di fare due chiacchiere con loro, anche su argomenti più generali. Ovviamente, si parla di salute, di ambiente, di servizi ai cittadini, ma non solo. Una riflessione ricorrente quando si parla di questioni sanitarie, è quella relativa alla sostituzione della parola «servizio» con la parola «azienda»: e non è un dato solo linguistico. Oggi dilaga la crisi, certo, con tutte le conseguenti difficoltà dovute alle risorse economiche sempre più limitate. Per dirla in modo chiaro: tagli o, in taluni casi, assenza di investimenti. Forse, però, le cose sarebbero oggi diverse se la politica non avesse scelto la strada della aziendalizzazione della Sanità (con scelte affidate magari a manager privi di cultura clinica), che conduce inevitabilmente alla diffidenza dei cittadini-utenti e al malcontento dei medici. Con la gestione «aziendale» della salute, si arriva forse ad una maggiore efficienza del sistema, ad una lotta più efficace contro gli sprechi, ad una ottimizzazione dei tempi e delle risorse umane, secondo precisi schemi produttivi e l’elaborazione di «tempari» per la durata delle visite in ospedale. Ma i nuovi modelli organizzativi ospedalieri hanno un difetto: sono subiti e non scelti. Né dai pazienti, né dagli operatori medici, né tantomeno dal personale paramedico. Questi soggetti hanno un comune denominatore: l’interesse alla migliore assistenza possibile, a disporre di cure appropriate, alla centralità del rapporto con l’utente.

«Stiamo andando proprio nella direzione opposta», mi dice, sconsolato, un medico ospedaliero di lunga esperienza. «Si sta perdendo per strada la dignità dell’operare medico, che conta sempre meno nelle decisioni di assistenza e cura del paziente. L’organizzazione aziendale viene prima di tutto: i medici rischiano di non essere in condizioni di operare in scienza e coscienza». Mi sembrano affermazioni gravissime, e un brivido mi corre lungo la schiena, pensando che, prima o poi, in ospedale ci entriamo tutti. Il fatto è che bisognerebbe anche uscirne risanati! «Questo causa anche la perdita del rapporto medico paziente - prosegue, lucido e inesorabile, il mio dotto interlocutore -. Noi ci sentiamo schiacciati tra le scelte gestionali volte ad evitare criticità economiche e la domanda  crescente di salute che viene da una popolazione che invecchia e che vede la malattia e la morte come il risultato di un insuccesso e di un diritto negato».

Ahi! Questo è davvero un tasto dolente: noi avvocati sappiamo che il contenzioso civile per negligenze mediche è aumentato vertiginosamente. La crescita del conflitti ha alimentato una medicina «difensiva», che rischia di divenire oggi consuetudine: in sostanza, ogni operatore sanitario metterà in opera una condotta volta innanzitutto ad evitare problemi legali, contestazioni, denunce. Si arriva così alla burocratizzazione e alla standardizzazione della medicina, con abbondante uso di farmaci volti a tutelare prima il medico e poi, forse, il paziente. No: non deve finire così. E’ necessario trovare, come sempre, un equilibrio, anche in quella complessa e delicatissima organizzazione che è la sanità pubblica. «I diritti dei malati sono sacrosanti», argomento io alla fine, mentre il medico, sempre più abbattuto, si congeda. «Bisognerebbe unire gli sforzi per uscire da un quadro alienante per tutti. In Trentino le cose vanno meglio che in molte altre parti d’Italia: gli spazi, anche di ascolto, ci sono», concludo speranzosa. Mi fermo in tempo, prima  che mi sfugga qualcosa, del tipo: «Vada a casa e si riposi per qualche giorno». Un avvocato che prescrive la cura a un medico sarebbe davvero troppo!

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