L'Italia che dimenticache cos'è la responsabilità

di Renzo Moser

Qualche anno fa, con Romano Prodi a palazzo Chigi, il «Financial Times» regalò ai suoi lettori un acido ritratto della politica italiana e del Belpaese in generale. Il quotidiano britannico descriveva una classe dirigente in deficit di credibilità, sclerotica, impotente di fronte al cancro della corruzione, incapace di risolvere una ventennale crisi dei rifiuti. Nonostante una classe di governo «iperpagata», era la lapidaria sentenza del Ft, l’Italia è il paese peggio governato d’Europa.
Bene, Prodi da palazzo Chigi è stato sfrattato da molto tempo, eppure quella diagnosi impietosa sembra scritta oggi. Nulla sembra essere cambiato, a conferma di quanto lo stesso Ft sottolineò: le responsabilità della situazione italiana sono bipartisan.  Ed è un vero dramma.
L’«immobilismo» e il «trasformismo», indicati allora come i grandi mali della politica italiana, non hanno colore, non conoscono primi, secondi e terzi poli, superano le ideologie, le contrapposizioni più accese, le antipatie e perfino gli odii più profondi; mutano come virus letali, risorgendo ogni volta più saldi e forti di prima. E dunque più pericolosi.
Del primo, l’immobilismo, abbiamo avuto una recentissima prova. Nell’estremo, e finora vano, tentativo di affrancarsi dallo scandalo del «bunga bunga», il premier Silvio Berlusconi ha azzardato  una sortita disperata sul terreno delle riforme economiche. Ad armare l’ariete, il ritrovato consigliere Giuliano Ferrara, grande sponsor del ritorno alle origini, del «Berlusconi del ‘94», del «premier che governa», quello che sparigliava le carte, rompeva gli schemi. Ma l’evocata «frustata» all’economia, il piano per la crescita uscito come per miracolo dal cilindro del Cav, dopo che per giorni il direttore del Foglio aveva preparato la strada, non è andato molto più in là di un effetto annuncio. Scene già viste, in questi anni, durante i quali, in un’Italia gattopardesca, molto si è cambiato perché nulla cambiasse. Non è un caso se l’unica novità per il sistema Italia, buona o cattiva che la si giudichi, ce l’abbia regalata Sergio Marchionne, guardato da tutti come una sorta di marziano.
Questo ci riporta al secondo di quei grandi mali. Un male endemico, che molti danni ha provocato e molti ne provocherà, un male politico ma che riflette un degrado più grande e preoccupante, che è sociale, culturale, etico. Il trasformismo, infatti, non si riduce a una, seppur poco edificante, tattica parlamentare. È qualcosa di più profondo, di più radicato, di più grave.
Certo, c’è una lunga e illustre tradizione, da Cavour in poi, giù giù fino all’Italia repubblicana. Francesco Cossiga, per nobilitare la pratica, diceva addirittura che il primo voltagabbana della storia fu San Paolo. E gli esempi sono fin troppo numerosi, oltre che molto meno illustri.
Purtroppo, non esiste alcun tipo di censura per i trasformisti, né politica né d’altro tipo. Perché l’Italia sembra aver smarrito un valore tra i più importanti, quello della responsabilità, e, nel caso della nostra classe politica, quello dell’etica della responsabilità che Max Weber indicava come requisito fondamentale del «vero uomo», per il quale si possa parlare di «vocazione alla politica». No, nell’Italia di oggi non si risponde, non si rende conto di nulla, tutt’al più  si «contestualizza», tanto da farci dubitare che vi sia ancora una morale condivisa.
La responsabilità pesa, esige rigore, severità, serietà. Esige molto. Troppo, forse, per un paese come il nostro. Un paese dove una città arranca da anni sommersa dai rifiuti, ma il suo sindaco non si sente in dovere di risponderne, dimettendosi per manifesta incapacità, scaricando su altri le responsabilità del disastro. Un paese dove, paradosso dei paradossi, i voltagabbana, di volta in volta bollati come traditori ribaltonisti o esaltati come eroi a seconda del senso di marcia del loro disinvolto movimento, sono improvvisamente diventati i «responsabili», e non temono sanzioni, protetti come sono da una legge elettorale che disarma gli elettori. Dalla responsabilità, in realtà, essi sono in fuga, privilegiando furbizia e scaltrezza a coerenza e rispetto, vivendo «di» politica, e non «per» la politica.
Non danno, costoro, un buon esempio, ma siamo sicuri che altro non siano che il pallido riflesso di quanto già accade nelle nostre città, nei nostri paesi, nelle nostre scuole e case, insomma nella società civile? Cominciamo a insegnarlo ai nostri figli, il valore della responsabilità, l’obbligo della responsabilità, e forse qualcosa, tra qualche anno, cambierà.

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