Quei volti muti oltre la soglia

Una mostra fotografica sul passaggio dalla vita alla morte

di Paolo Ghezzi - NO

Quell’uomo che moriva di cancro,mentre moriva, aveva lo sguardo sofferente e torvo dei malati gravi,quando il loro volto si trasforma – per noi che li guardiamo – inuna specie di muta accusa: «Perché sto soffrendo così, io sì e tuno? Perché mi tocca morire tra un mese, e tu magari ti annoieraialtri quarant’anni? Perché il morso del male dentro la carne, ildrago nel mio ventre (come lo chiamava David Maria Turoldo, chesoffriva ma lottava e credeva nella resurrezione)?».

E poi, appena dopo morto, Walter Schelsl’ha rifotografato, e dal suo volto è scomparso ogni dolore, se neè andata l’angoscia, è evaporata l’accusa. Morire? Dormire,forse? Dormono, dormono sulla collina. I volti dei mortirifotografati da chi li aveva colti pochi mesi o settimane prima,nella loro condizione «terminale», sono volti generalmentepacificati, volti di dormienti con le palpebre abbassate. Non è unviaggio facile, quello che propone la mostra «Noch mal leben» -«Vivere ancora», a Bolzano, ad iniziativa dell’associazione dicure palliative «Il papavero» guidata da Ingrid Dapunt (aperta finoal primo aprile alla Libera Università di Bolzano, lun - ven 15-19,sab 9-18, dom 9-12).

Un itinerario difficile perché tiporta a guardare i volti in primissimo piano di gente che sta permorire e poi è morta, non sono i cadaveri in quantità industriale,da guerra o terremoto, che il tg ci serve all’ora di cena: mortisenza volto, numeri, statistiche, quantità e non reali singolariesistenze.

Esorcizzata dalla pubblicità, dallapolitica demagogica e dall’edonismo di bassa lega, con l’operadel fotografo tedesco Walter Schels (accompagnata dai testi di suamoglie, la giornalista Beate Lakotta), la morte torna ad essere unmomento, sia pure definito ed estremo, della vita. Non la suanegazione, ma il completamento, l’exitus. Che poi sia anche untransitus verso un’altra vita, è questione di fede, nondimostrabile. Può essere una speranza. Che quel sonno sia prologo diun risveglio in qualche modo, da qualche parte, con un corpo salvato,guarito e non più mortale. Nella civiltà contadina che vegliava imorti in casa, si aveva il tempo per la meditatio mortis, che oggi ciè sottratto dalle dosi industriali di vitalismo plastificato cheirrompe dalla comunicazione dei prodotti che ci allietano, ciallungano, ci ubriacano la vita.

Quelle foto così apparentemente«dure», dunque, ci riconciliano con il lato oscuro della vita,invitandoci a umanizzare sia il vivere sia il morire: anche con lecure palliative, certo, che alleviano l’inutile dolore, masoprattutto con il dialogo tra i vivi e i morenti, e anche tra i vivie i morti. Che vivono in mezzo a noi, misteriosamente, anche quandoce li dimentichiamo. «Addormentati nella speranza dellaresurrezione», recita la liturgia della Chiesa cattolica: speranzafondata sulla fede, quindi sulla fiducia, e non certezza matematicadi un risultato.

In questo senso, anche per tutti coloroche credono che la morte sia l’ultimo nemico, l’ultimo capitolo,senza riscatti e senza appendici, senza nuove vite e senzaresurrezioni, quelle foto dei volti dei morti – dei bambini, delleloro mamme, dei loro nonni e dei vecchi solitari – ce li offrono adun’ultima carezza, ad un ricordo, ma soprattutto a unaricalibratura della vita. Perché poco è quel che di noi resta, equel poco è una piccola o vasta trama di relazioni non consumabili,tra me e te, tu e io, tra il tuo volto e il mio volto, i miei occhi ei tuoi.

«Osservare i loro volti, leggere leloro parole ci dovrebbe rendere consapevoli che ognuno vuole essereamato fino alla fine della sua vita» scrive Ingrid Dapunt.

Una delle 24 persone, di etàcompresaWalter Schels tra i 17 mesi e gli 83 anni, ricoverate neglihospice del nord della Germania, e raccontate da Schels e Lakotta nelloro avvicinarsi all’ultima soglia, Maria Hai-Anh Tuyet Cao, eaveva 52 anni, come io oggi. Se n’è andata ripetendo le paroledella sua Maestra spirituale: «Ciò che si trova nell’aldilà èmigliore rispetto al nostro mondo. Migliore di tutto ciò cheriusciamo o non riusciamo a immaginare».


P.s.: Marina, una lettrice speciale,leggendo l’ultimo «Cuori matti» sulla vita e la morte nel film«Orfeu negro», ci ha ricordato i versi della bellissima canzone diVinicius de Moraes e Antonio Carlos Jobim, che pervade di malinconicabellezza la pellicola: «Tristeza não tem fim, felicidade sim...»,cioè «La tristezza non ha fine, la felicità sì». Quant’è veroin tutte le nostre vite. E se, oltre la soglia, diventasse vero ilcontrario? «Felicidade não tem fim, tristeza sim»?

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