Silvio, perdonaci: siamo tutti talebani

di Paolo Ghezzi - NO

L’ultima(anzi, ormai la penultima) delle 13.457 esternazioni dell’Unto delSignore contro i magistrati che ancora osano indagare sui suoispericolati pasticci, conferma lo slittamento della politica“cavalieresca” su terreni sempre più ideologico-religiosi e sempre menoaffrontabili e discutibili sul piano di una normale dialetticademocratica. Nella logica del “con Lui o contro di Lui” - unoschierarsi richiesto a priori, come un’adesione fideistica al messiadella politica nuova, o viceversa un blasfemo negare la sua divinità -non c’è più spazio per gli argomenti, ma solo per i giuramenti e leguerre sante.
Evocando costantemente il giudizio di Dio sugli infedeli, il Cavaliereè il campione degli integralisti che in continuazione evoca, condanna efa inevitabilmente prolificare da entrambe le parti. Ostentando ilcorpo del messia della politica nuova alla venerazione e dunque ancheal suo contrario (miniature del Duomo di Milano incluse), chiamando araccolta il partito dell’amore e dunque moltiplicando esponenzialmentele opposte partigianerie dell’odio, Lui è oggettivamente andato “oltre”la fisiologia di una democrazia rappresentativa per approdare aiterritori misteriosi e pericolosi della democrazia diretta, televisivae carismatica.
Così l’Unto può chiamare “talebani” i magistrati che lavorano nelleprocure della Repubblica senza che nessuno gli imponga un trattamentosanitario obbligatorio in un reparto psichiatrico della pubblicasanità.
Maa questo punto, siccome le parole sono importanti, soprattutto nelladeriva carismatica e psicopatica della Repubblica, occorre spiegare checosa significhi taliban (correttamente: tâlibân), prima diventare unsinonimo di terroristi fanatici. “Questo termine viene dalla parolaaraba tâlib che ha un doppio significato: da un lato “studente”,dall’altro “colui che cerca” che “chiede” qualcosa, che “tende” aqualcosa. Il plurale arabo di tâlib è tâlabat, ma nell’area musulmanadi cultura iranica, quali sono l’Afghanistan, l’Asia Centrale ed ilsubcontinente indo-pakistano, si preferisce aggiungere alla parolaaraba la desinenza persiana del plurale per i nomi indicanti esserianimati -ân: abbiamo così talibân, “studenti”, o “cercatori” diqualcosa” (Giovanni Bensi, Csseo, 2001).
E se “studeo”, in latino, significa non solo studiare, ma “dedicarsi a,prendersi cura di, aspirare a”,  non è meraviglioso continuare adessere “studenti” anche una volta usciti dalle scuole?
Edunque, perché non dichiararci tutti talibàn, cioè cercatori estudenti, innamorati della verità e della giustizia, esploratori dellabuona politica, partigiani dell’amore appassionato, militantidell’aspirazione a un’Italia migliore?

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