Politica e calcio, le diversità

di Paolo Micheletto

Il calcio - per chi ci crede - è la metafora della vita. C’è chi vede in un gol, in uno schema e perfino in una retrocessione un «disegno» che si può presto applicare all’esistenza di ciascuno di noi. Il calcio e la politica, però, sono agli antipodi. Da una parte le panchine «volano», dall’altra le poltrone restano incollate.
Basti guardare al campionato di serie A. Anche quest’anno il «taglio» degli allenatori è stato micidiale, e ha riguardato squadre di altissimo livello (Juventus e Roma) come società di secondo piano (Siena e Livorno). L’allenatore dell’Inter José Mourinho ha detto: «In Italia l’allenatore è un eroe. Non si fa programmazione».
Il numero uno dell’Inter voleva dire che nel nostro Paese non si può ragionare su periodi troppo lunghi, e che al primo errore si paga e si va a casa, senza aspettare i frutti del raccolto. Magari può essere vero (Mourinho non sbaglia mai...). Ma dall’altro lato la politica offre un esempio opposto. Terribile. Già, perché i «vertici» che comandano sono sempre gli stessi da secoli. Silvio Berlusconi è diventano presidente del Consiglio per la prima volta nel 1994 ed è saldamente in sella. Nel Pd ci sono deputati che raccolgono legislature come figurine Panini. E nel complesso il quadro politico si scompone ma senza modificare il risultato finale: potremmo fare decine di esempi. Alcuni ex democristiani, inoltre, sono alla ricerca del «centro» da quando sono nati, e ancora restano lì a provarci.
Insomma, il cambio di panchine (o di poltrone) è una pratica così negativa, come dicono coloro che ogni volta attaccano i presidenti «mangia-allenatori»? O forse questi presidenti hanno più coraggio degli elettori?

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