Una rosa bianca per Anneliese

di Paolo Ghezzi - NO

La sera del 18 febbraio 1943 Anneliese Graf, studentessa universitaria di 22 anni, ritornando nel suo appartamento di Monaco di Baviera, trovò due uomini della Gestapo ad aspettarla. Erano venuti per suo fratello Willi, classe 1918, sospettato di essere un complice dei fratelli Hans e Sophie Scholl, arrestati in mattinata all’università dopo l’ultima distribuzione di volantini della Weisse Rose, la Rosa Bianca, il gruppo di resistenza nonviolenta a Hitler.
Graf rincaserà un paio d’ore dopo, e fratello e sorella vennero arrestati insieme. Willi, che aveva partecipato ai volantinaggi della Rosa Bianca, fu poi condannato a morte in aprile e ghigliottinato il 12 ottobre di quell’anno. Anneliese, che non sapeva nulla dell’attività clandestina del fratello, se la caverà con qualche mese di carcere senza processo.  
Anneliese, le cui ceneri sono state tumulate giovedì scorso accanto alla tomba del marito Bernhard, a Bühl nel Baden Württemberg dove viveva e dove si è spenta il 27 agosto, a 88 anni d’età, era una coetanea di Sophie Scholl, anche lei una ragazza del ’21: in una vita piena e intensa la sua, dedicata alla famiglia (ha tre figlie e due nipoti) alla scuola (aveva diretto il famoso Internat di Marienau, collegio della Bassa Sassonia, con suo marito) e alla politica (è stata impegnata con i liberali della Fdp).
Anneliese ha “portato avanti”, come le aveva chiesto suo fratello nell’ultima lettera, il messaggio di resistenza e di libertà della Weisse Rose. Forse proprio perché non era stata coinvolta, nel 1942-43, nell’attività del gruppo (suo fratello riteneva che non fosse una “cosa da donne”), per mezzo secolo dopo la fine della guerra mondiale e fino alla morte, è stata la più instancabile nel girare la Germania e l’Europa a fare memoria, a trasmettere memoria. Quello che Inge Scholl è stata - la voce e la memoria - per i suoi fratelli Hans e Sophie, Anneliese lo è stata fino in fondo, non solo per suo fratello, ma per tutto il gruppo della Rosa Bianca.
Nel febbraio dell’anno scorso aveva fatto la sua ultima testimonianza in Italia, a Novara e poi a Rovereto, per presentare la biografia di Willi scritta da Paola Rosà: arrancando sulle gambe, rovinate anche dal diabete, ma sempre lucidissima di testa, di giudizi e di ricordi. L’avevo aiutata a salire sul treno, e per lei era stato uno sforzo indicibile: ma viaggiava tenacemente da sola, avrebbe chiesto l’aiuto di un braccio, di una mano di sconosciuto per scendere dalla carrozza alla stazione di Monaco, mai avrebbe chiesto alla figlia di venirla a prendere, sarebbe arrivata a casa con i suoi treni e il suo taxi: una ragazza resistente non si fa mai compatire, neppure a quasi novant’anni.
Il libro su suo fratello non aveva potuto leggerlo, non conoscendo l’italiano, ma aveva energicamente protestato per la foto di lei che si era ritrovata nel volume: si era trovata bruttina, e avevamo capito che la ragazza graziosa delle foto degli anni Quaranta, la “sorella piccola” del grande Willi, non era solo una tenace combattente della memoria, ma una donna ancora fiera della sua femminilità, oltre che della sua storia e del suo carattere straordinariamente forte.
“Weitertragen”, portare avanti il messaggio della Rosa Bianca, era stato l’invito che le aveva fatto Willi nella sua ultima lettera, prima di finire nelle mani del boia nel carcere di Stadelheim, a Monaco, vicino alla Perlacher Forst dove già da sei mesi riposavano i corpi decapitati dei primi tre condannati a morte della Weisse Rose: Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst che aveva già tre figli piccoli.
E Anneliese, così diversa da suo fratello, allontanandosi il tempo e il ricordo del suo martirio antinazista, aveva moltiplicato le presenze, gli appelli, i viaggi, gli scritti, che “portavano avanti” la scelta e le parole di Willi e dei suoi amici. In questo senso, “die kleine Schwester”, come lui - tre anni più grande - la chiamava, era diventata una piccola sorella e una grande testimone, legata sempre di più a lui dalla misteriosa fedeltà e sintonia che talvolta rende i morti più vivi dei viventi.
“Avrei sufficienti motivi - ha detto Anneliese in una delle sue ultime interviste - per rappresentare mio fratello come un eroe, mi basterebbe pensare alla sua impressionante e radicale coerenza di pensiero e azione. Eppure mi rifiuto di attribuire a lui e agli altri il ruolo di modelli, in primo luogo per ragioni di ordine pedagogico: un paragone così smisurato non potrebbe che avere un effetto scoraggiante sui giovani, e poi il termine eroe per me è irrimediabilmente compromesso dall’uso che ne hanno fatto i nazisti. Ho cercato invece di evidenziarne le caratteristiche profondamente umane”.
E questa “normale” umanità del resistente, Anneliese ci ha trasmesso in modo così semplice, forte e convincente, da consentirci a nostra volta di continuare a raccontare la normale e insieme straordinaria scelta di minoranza compiuta da Willi Graf e dai suoi amici: opporsi al male, non inginocchiarsi davanti al dittatore, lottare per la libertà di tutti anche a rischio della vita propria.
Anneliese non aveva - mi confessò un giorno - il dono di una fede forte come quella del fratello, che andrò incontro al boia nella certezza consolante della resurrezione: mi disse che non sapeva che cosa pensare, che non era affatto sicura di ritrovare Willi al di là della soglia oscura. Mi consola immaginare invece che l’abbia già riabbracciato, e che si siano stretti forte la mano, come quella notte del 18 febbraio 1943, a Monaco, seduti vicini nella macchina nera della Gestapo: la polizia segreta che pensava di averli ingabbiati e sconfitti, ma non aveva fatto i conti con la forza inesorabile della libertà, con l’eco senza tempo delle parole fragili ma invincibili di chi sa morire per aver detto no alla ferocia seducente della dittatura, e sì alla gentilezza spinosa (e sanguinosa, dunque) di una rosa bianca.


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