Mano di ferro, le rocce e le rose

di Paolo Ghezzi - NO

Orache l’Unesco protegge le Dolomiti, speriamo che noi dolomitici neriusciamo a proteggere la magia quasi soprannaturale. E allora torniamoa riscoprirla, magari aprendo “I monti pallidi” di Carlo Felice Wolff,che nel 1913 pubblicò la sua prima raccolta di leggende dolomitiche.
La “Mano di ferro” racconta come fu che Oswald von Wolkenstein divenne uno dei più celebri trovatori in lingua tedesca.
Capitòche una “Ganne”, un’indovina, predisse per il piccolo nobile tiroleseOswald una vita di dolori e infelicità se solo avesse conosciuto l’artedella musica: viceversa, se non l’avesse praticata, avrebbe vissutotranquillo e contento. E così Oswald fu soprannominato “Man de Fjer”,perché non poteva toccare una cetra o un flauto senza mandarli infrantumi: dunque il giovanotto fu costretto giocoforza a dedicarsi allacaccia e alla guerra, come si conviene agli uomini di buona famiglia.
Finché un giorno, sul Monte Molignon, incontrò una bellissima silfideche, seduta accanto a un cespuglio di rose bianche, cantava unameravigliosa canzone. “Non ti dirò il mio nome - disse la fanciulla delbosco ad Oswald - ti dirò solo che vengo dal giardino delle rose(Rosengarten, Catinaccio) perché l’incantesimo che strega le tue manipotrebbe essere spezzato solo da un dolore così terribile cherimpiangeresti di avere le mani di ferro”.
Ma il buon Oswald era innamorato pazzo, come anche ai rudi dolomiticiogni tanto càpita d’essere: e quando, qualche tempo dopo, apprese - nonvisto - da un gruppo di “Cristannes” (esseri selvaggi delle vette) chela sua magnifica silfide si chiamava Antermoja, quando la rivideun’altra volta non si trattenne dal chiamarla per nome. L’incantesimoera spezzato.
Ecco come Wolff racconta ciò che accadde: “Quando udì pronunciare ilsuo nome, la silfide si mise a piangere e a sospirare perché sapeva cheormai tutto era finito fra loro, per sempre. Tristemente gli disseaddio e gli pose tra le mani la sua cetra: poi entrò nel cespugliofiorito di rose bianche e cantò con la sua voce soave una canzone, chemai prima d’allora Oswald aveva udito cantare da lei”.
La leggenda finisce in fretta, come un sogno bello che precipitanell’alba: la silfide sparì in un lago di acqua nera, Oswald vonWolkenstein si disperò per tre giorni, e al terzo giorno prese in manola cetra d’Antermoja e le sue mani ne cavarono una sovrumana melodiaintessuta di amore e di dolore.
Aveva ricevuto la grazia della musica, Oswald, insieme alla disgraziadell’infelicità. Sarebbe stato un poeta celebrato, errabondo “di terrain terra e di mare in mare” ma la tristezza non l’avrebbe maiabbandonato.
Chissà se il patrimonio dell’Unesco aiuterà le Dolomiti a conservare la magia che oggi non abita quasi più le nostre esistenze.
Chissà se quel nome, Wolkenstein, sasso delle nuvole, assisterà con lasua antica saggezza gli amministratori delle terre e dei sassi che ognianno attirano milioni di visitatori inconsapevolmente catturati dallearmonie di Oswald e di Antermoja: di un amore ai tempi delle fate edelle streghe, degli esseri selvaggi che non immaginavano che sarebberoarrivati a proteggerli, mille anni dopo, Messner e la Prestigiacomo,Gilmozzi e Daidola, Dellai e l’Unesco, eppure vivevano liberi (felici einfelici, come ogni figlio della terra) tra le nuvole e le montagne,tra i sassi e le rose bianche.
  

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