Donald Trump a colloquio da Obama Nelle città proteste contro il tycoon

È durato circa un’ora e mezza il colloquio nello Studio Ovale tra Barack Obama e Donald Trump. «Più del previsto», ha commentato il neoeletto.

Hanno usato toni diplomatici Donald Trump e Barack Obama al termine del loro confronto ufficiale, da presidente entrante ed uscente.

«È stato un grande onore. Non vedo l’ora di continuare a collaborare con Obama in futuro», queste le parole di Trump al termine dell’incontro. Toni decisamente diversi da quelli arrembanti della campagna elettorale, durante la quale Obama - con la moglie Michelle - aveva speso tutto il proprio carisma per tirare la volata all’ex rivale Hillary Clinton.

Per il presidente Obama «è stato un colloquio eccellente». E Trump ha fatto scorrere il miele: «Obama? Una gran brava persona (A very good man)».

Intanto è iniziato il processo ai colpevoli della sconfitta all’interno dei Partito Democratico. La sconfitta «è un imbarazzo per l’intero partito» afferma Bernie Sanders, l’ex candidato «socialista» che aveva dato filo da torcere all’ex first lady ed ex Segretario di Stato. In un’intervista all’Associated Press ha detto che la «mancanza di entusiasmo» fra i Democratici ha causato la sconfitta di Hillary Clinton.

Ieri c'è stato un faccia a faccia anche tra la first lady Michelle e Melania.

È infatti consuetudine che così come il presidente uscente riceve il presidente eletto per dare il via al periodo di transizione, vi sia un passaggio di consegne anche tra le due first lady.

E ieri si è parlatop anche dell'intervista rilasciata da Robert De Niro, che in un video pro Hillary aveva insultato Trump, dicendo di volerlo picchiare.

Trump è arrivato da New York a Washington a bordo del suo jet privato rompendo la prassi di portare con sé i giornalisti nel suo corteo o nel suo aereo per documentare la sua prima storica visita alla Casa Bianca. Durante la sua campagna, il magnate newyorchese è stato fortemente critico con i media, alcuni dei quali banditi temporaneamente per una copertura ritenuta faziosa.

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E ieri sono scesi in piazza gli elettori che rifiutano Trump, considerato xenofobo, sessista e inaffidabile.

C’era anche la leggendaria Cher ai piedi della Trump Tower che si dava da fare gridando slogan e abbracciando manifestanti: «I am here to support them» (sono qui per appoggiarli), ha detto la settantenne cantante del duo pop Sonny and Cher mischiandosi alle circa ottomila persone partite poco dopo le venti da Union Square e da Columbus Circle per convergere sulla Quinta all’altezza della 56esima.

Camion della spazzatura usati come barriere protettive hanno circondato l’ingresso del grattacielo. Una foschia sottile ha avvolto la cima della torre, cinta d’assedio dai manifestanti.

Sul trono damascato Luigi XV, scelto dal designer dei vip Angelo Donghia che ha decorato il suo superattico, il tycoon presidente-eletto avrà scelto di guardare verso Central Park, non verso sud e verso il fiume umano che ha invaso la «sua» Fifth Avenue arrampicandosi su impalcature e semafori per meglio farsi sentire. «Not my president», «New York odia Trump», «Fuck. Trump», gli slogan scanditi a squarciagola da migliaia di persone, giovani e giovanissimi ma non solamente.

«Marciare e gridare è stato catartico», ha spiegato una ragazza laureata a Columbia: «È in gioco il nostro futuro. Come per voi, quando marciavate contro il Vietnam».

Ai piedi della Trump Tower il popolo di Bernie Sanders si è stretto al popolo di Hillary, dimenticando per una sera l’interrogativo: cosa sarebbe successo se fosse stato il senatore del Vermont e non l’ex segretario di Stato a guidare la sfida democratica contro Trump? «Losers» (perdenti), sibila un sessantenne in giacca e cravatta che cerca di farsi largo tra la folla dei manifestanti.

«Hillary ha avuto più voti di lui», lo contesta un ragazzo.

«Ignoranti», si sente rispondere: «Non sapete cos’è il collegio elettorale?».

Una studentessa di Barnard, il braccio femminile di Columbia, innalza un cartello rosa, «Pussy power», a caratteri cubitali, mentre altre gridano «giù le mani dalla mia pussy». Bandiere arcobaleno, simbolo del movimento gay, «F##k your tower», «F##k your wall», il muro che lui vorrebbe costruire al confine con il Messico. Gli slogan salgono verso i piani alti della torre perdendosi nella nebbia, mentre una ‘pentolaccià con l’effige di Trump viene presa a ombrellate e perde presto una gamba.

Qualcuno brucia una bandiera a stelle e strisce.

Fuori dal Trump International Hotel a Columbus Circle la polizia aveva fatto una quindicina di arresti per intralcio al traffico, un’altra cinquantina di manifestanti sono stati fermati verso la fine della serata, ma la protesta è stata sempre pacifica. Emanuel Perez, messicano del Bronx e uno dei molti lavoratori di ristoranti di Manhattan che ancora in uniforme da lavoro si sono uniti alla marcia, confida la sua paura: «Quanti bambini verranno separati dalle loro famiglie?».

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