Omicidio razzista a Fermo In manette un noto ultrà

È stato fermato con l'accusa di omicidio preterintenzionale,  con l'aggravante della finalità razziale, Amedeo Mancini, l'ultrà della Fermana indagato per l'uccisione di Emmanuel Chidi Namdi, il richiedente asilo nigeriano pestato a morte il 5 luglio a Fermo, mentre difendeva la compagna dagli insulti razzisti di Mancini.

L'ultrà aveva aggredito, prima verbalmente parlando di "scimmie africane", poi strattonandola, la compagna di Emmanuel, di 24 anni, nel centro di Fermo.

Chinyery «sta male, è sconvolta, completamente sotto choc e inconsolabile per la perdita di Emmanuel», riferisce chi assiste la giovane nigeriana. La donna è stata trasferita dal seminario vescovile di Fermo, dove era ospite con lui, in un'altra struttura di accoglienza. 

«È seguita dai medici, e da alcune suore. Cerchiamo di farle coraggio, ma in Italia ormai è completamente sola, non ha parenti, nessuno». A trovarla sono andati alcuni amici conosciuti nel seminario di Fermo.

«La commissione competente ha concesso alla compagna del migrante ucciso a Fermo lo status di rifugiata», ha detto il ministro dell'Interno Angelino Alfano dopo il comitato per l'ordine e la sicurezza in Prefettura.

Alfano ha ricordato che la donna aveva sostenuto l'esame per il riconoscimento dello status lo scorso maggio.

La ricostruzione: Emmanuel avrebbe reagito impadronendosi di un paletto staccabile della segnaletica stradale con cui avrebbe colpito il tifoso, un 35enne italiano già noto alle forze di polizia e sottoposto a Daspo, facendolo cadere a terra. Rialzatosi, quest'ultimo lo avrebbe raggiunto con un pugno al viso, facendolo stramazzare: nella caduta Emmanuel ha battuto la testa e sarebbe poi stato colpito ancora. 

Emmanuel e la sua compagna erano stati accolti dalla Fondazione Caritas in veritate, guidata da don Vinicio, lo scorso novembre. Erano in fuga dalla Nigeria, dove avevano perso tutti i loro familiari in uno degli attacchi alle chiese cristiane da parte di Boko Haram e per arrivare in Italia avevano superato altre violenze in Libia. Una traversata che era costata la vita al bimbo che lei portava in grembo, ma che li aveva portati a sperare di un futuro migliore.

A gennaio don Vinicio li aveva uniti informalmente, per mancanza di documenti, in matrimonio nella chiesa di San Marco alle Paludi. Ed è stato proprio don Albanesi a chiamare in causa, per l'aggressione, "lo stesso giro delle bombe davanti alle chiese", o quanto meno lo stesso clima culturale: "credono - ha detto il sacerdote - di appartenere alla razza ariana".

Don Vinicio ha contestato anche la ricostruzione dei fatti, sulla scorta del racconto della moglie di Emmanuel, che ha riportato escoriazioni guaribili in 5 giorni, e annunciato che si costituirà parte civile, in quanto presidente della Fondazione Caritas in veritate, che ha accolto 124 profughi, di cui 19 nigeriani. Un episodio che non ha precedenti nella città, dove gli stranieri sono numerosi e ben integrati e dove i richiedenti asilo vengono chiamati a raccontare le loro storie nelle scuole e nei raduni scout.

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