Clinton e Trump, altro passo verso la nomination

Donald Trump: «È fatta! Mi considero il candidato». Hillary Clinton: «Vinciamo la nomination e uniamo il partito!». Con l’ultimo Super Tuesday delle primarie americane il frontrunner repubblicano e democratica vedono avvicinarsi il momento della consacrazione e sono proiettati verso l’ultimo sprint della sfida alla conquista della Casa Bianca con prove generali di showdown.

Donald Trump prende tutto nei cinque stati del nord-est alle urne (Maryland, Delaware, Pennsylvania, Connecticut e Rhode Island) che di fatto chiudono il capitolo east coast prima di passare al test finale e decisivo di giugno in California. A questo punto l’unico elemento che sembra poter scalfire il tycoon di New York è la potenziale tegola giudiziaria circa la presunta frode da 40 milioni di dollari che vede coinvolta la Trump University, caso che - è decisione di queste ore - andrà a processo e Trump potrebbe essere chiamato a testimoniare durante la campagna elettorale.

Hillary Clinton non fa l’en plein ma quasi, conquistando quattro stati su cinque, e dal palco della vittoria a Filadelfia, che ospiterà la convention democratica a luglio, lancia l’appello all’unità del partito.

Lo sfidante liberal di sinistra Bernie Sanders prende solo il Rhode Island nonostante un testa a testa fino alla fine in Connecticut, ed ora non parla più di vittoria sebbene si dica ancora determinato ad arrivare alla convention e a «combattere per una piattaforma progressista del partito».

Hillary allora va oltre e, pronta per passare al prossimo capitolo, comincia a chiamare a sè i sostenitori di Sanders: «È molto di più ciò che ci unisce di ciò che ci divide». E promette: «Tornerò qui con la maggioranza dei voti e dei delegati». Il clima è da ‘giochi fattì e Trump parte all’attacco: «Hillary presidente sarebbe orribile. Se fosse un uomo non prenderebbe più del 5% dei voti». Lei risponde a tono: «Se battersi per l’equità di salario è giocare la carta femminile, lo sottoscrivo».

La certezza matematica ancora non c’è: ma la superiorità numerica nella conta dei delegati per Hillary Clinton la fa gioire al punto da accennare passi di danza. Nel discorso della vittoria allo sfidante Sanders riserva poco più che ringraziamenti di cortesia. Trump che punta al ‘magic number’ - 1.237 delegati per evitare la convention aperta - deve aspettare la prova del nove con il voto in Indiana a maggio, dove tra l’altro entrerà ‘in vigorè il ‘pattò stipulato tra i due sfidanti repubblicani rimasti, Ted Cruz e John Kasich. In particolare, Cruz spera ancora e tenta di attirare nuovamente l’attenzione su di sè con un annuncio a sorpresa - previsto in tarda serata - sulla sua scelta per il ticket: la ex candidata per la nomination Gop Carly Fiorina sarà - indicano fonti - la sua vice.

Intanto il magnate di New York va facendosi sempre più ‘presidenzialè, anche se ancora ad intermittenza per non scontentare quell’elettorato che gli ha garantito l’inarrestabile cavalcata fin qui al grido di ‘no al politicamente correttò. Così eccolo a Washington, non nella sua Trump Tower con vista su Manhattan ma nella fossa dei leoni della tanto vituperata politica mainstream, ad enunciare la Dottrina Trump in politica estera.

Questa volta non parla a braccio come gli piace fare, ma legge un discorso vigoroso eppure misurato, dove c’è tutto il trumpismo dello slogan «facciamo l’America di nuovo Grande» («L’America prima di tutto» in questo caso), le promesse di eliminare l’Isis «e velocemente», la critica feroce al tandem Obama-Clinton, ma anche la consapevolezza di doversi misurare con temi grandi e grandissimi presi punto per punto (ne elenca cinque).

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