«Quando i nazisti ci deportarono» Parla un eroe del ghetto di Roma

«Il 16 ottobre del 1943 io c’ero». Alberto Sed è un ebreo romano di 87 anni e, quando ne aveva appena 14, vide le camionette dei nazisti arrivare all’alba nel Ghetto, sentì le urla di disperazione di donne e vecchi, il pianto dei bambini ancora insonnoliti. Fu la deportazione degli ebrei di Roma (1259 persone) nei campi di sterminio nazisti, un evento che sarà ricordato domani dalla comunità ebraica.

Alberto Sed, orfano di padre, si salvò miracolosamente insieme alla madre e a tre sorelle, ma la loro fuga fu breve.
Nel marzo del ‘44 furono catturati in un magazzino a Porta Pia, in seguito ad una spiata, e mandati ad Auschwitz.

«Da lì siamo tornati in pochi», racconta l’anziano ebreo, che ha visto uccidere, quando era un ragazzino, la madre e due sorelle (una sbranata dai cani delle Ss) e che per cinquant’anni ha taciuto sull’orrore vissuto, persino con la moglie e con i figli.

Poi si è sbloccato ed è «uscito», come dice lui, da Auschwitz, raccontando la sua storia prima in un libro scritto dal giornalista e ufficiale dei carabinieri Roberto Riccardi intitolato «Sono stato un numero» (edito da Giuntina), poi in centinaia di incontri con scuole, giovani, detenuti, gente comune. Con la sua testimonianza ha dato coscienza a decine di migliaia di persone della barbarie avvenuta.

Tanto che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha annunciato la scorsa settimana che lo insignirà, insieme ad altri 17 "eroi comuni", dell’onorificenza di «commendatore».

Led non se ne capacita: «Quando mi hanno chiamato dal Quirinale pensavo che fosse uno scherzo», dice ridendo. «E non ci avrei nemmeno creduto, se dopo non mi avessero chiamato alcuni giornalisti», aggiunge. Il sopravvissuto non si sente di aver fatto nulla di speciale. Anzi. «È l’affetto, la solidarietà della gente con cui parlo tutti i giorni, le migliaia di lettere ricevute dagli studenti che mi hanno tirato fuori dall’orrore del campo di concentramento», spiega. Però una volta un amico gli ha detto: «Alberto, se ci sarà un altro Olocausto, non necessariamente contro gli ebrei, nessuna delle persone con cui hai parlato sarà dalla parte dei carnefici». Di questo, Led è fiero.

Solo da otto anni l’uomo ha reso pubblici i suoi ricordi più atroci. «Non sono mai riuscito a prendere in braccio un neonato, nemmeno i miei figli, perchè ad Auschwitz i nazisti ci facevano tirare in aria bambini di pochi mesi e si divertivano a ucciderli, come nel tiro a piattello», racconta. «Non sono mai riuscito a entrare in una piscina, perchè ho visto un prete ortodosso massacrato e annegato dai carnefici», aggiunge.

«I nazisti - rievoca ancora - uccidevano non solo ebrei, ma anche zingari, partigiani, oppositori e persino tedeschi stessi perché handicappati o malati mentali. Non sapevano che farsene».
Domani Led, in occasione della manifestazione che ricorderà la tragica deportazione degli ebrei di Roma, si recherà a parlare della Shoah in una scuola di Ladispoli. «Ho ricevuto inviti anche da alcune televisioni, ma io preferisco i ragazzi», spiega, sottolineando come lui abbia potuto frequentare solo le elementari.

A dieci anni, infatti, si trovò sbarrate le porte delle scuole e delle squadre di calcio, a causa delle leggi razziali: «Non ero più un bambino, ero diventato un ebreo».

Ciò avvenne pochi mesi prima che gli uomini del colonnello delle SS, Herbert Kappler, irrompessero alle 4.30 del mattino del 16 ottobre del 1943 al Portico d’Ottavia.

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