Francesca Candioli vince il concorso giornalistico al festival di Perugia

di Fabrizio Franchi

E' la nostra Francesca Candioli, collaboratrice de l'Adige, la vincitrice italiana del concorso internazionale di giornalismo al Festival di Perugia. Hanno partecipato ben 600 studenti europei, descrivendo ognuno in un saggio il futuro del giornalismo partecipando al Premio Letterario del Festival Internazionale del Giornalismo. I vincitori sono stati annunciati da Amazon che ha sostenuto con una borsa di studio i cinque vincitori finali: Francesca Candioli dall’Italia, appunto, Arièle Bonte dalla Francia, Theresa Lindlahr dalla Germania, Leticia Díaz dalla Spagna, e Rebecca Sian Wyde dal Regno Unito. 

I vincitori hanno partecipato in questi giorni al Festival Internazionale del Giornalismo a spese di Amazon e hanno preso parte al panel dal titolo "Dalla parte del lettore: il futuro del giornalismo visto dagli studenti europei" che si è tenuto questa mattina. Al panel hanno partecipatoi Mario Calabresi, direttore de La Stampa, e Russ Grandinetti, senior vice president Kindle Content.

I giovani partecipanti al concorso, dovevano avere tra i 18 e i 25 anni; ognuno di loro ha composto un saggio di 2000 parole sul tema “Qual è il futuro del giornalismo?”.  

Le quattro testate partner del Festival, La Stampa, El Pais, DEDL.de e The Guardian, pubblicheranno i saggi dei vincitori durante la settimana del Festival Internazionale del Giornalismo (15-19 aprile). Una selezione dei saggi migliori sarà invece raccolta in un eBook pubblicato su Kindle Store tramite Kindle Direct Publishing dal Festival di Giornalismo. 

La vincitrice italiana è Francesca Candioli, che ha iniziato 3 anni fa a scrivere per la redazione di Rovereto de l'Adige, animata da una grande passione per questo mestiere, pur nella grave situazione di precariato che sta colpendo i giovani giornalisti. Candioli, che ha da poco compiuto 25 anni, è studentessa appena laureatasi in “Cooperazione internazionale, tutela dei diritti umani e dei beni etno-culturali” all’Università di Bologna. Originaria di Isera, si è diplomata al liceo classico di Rovereto, "Rosmini". Oggi, oltre a collaborare con l'Adige, scrive per Vita Trentina, collabora a Bologna con Radio città Fuijko e con la redazione del Corriere di Bologna. Nel suo saggio, Francesca concepisce il futuro del giornalismo come frutto delle necessità di investire in nuove tecnologie e di aiutare il lettore, in modo affidabile, a riconoscere i contenuti più rilevanti e più attendibili, all’interno di un grande flusso di informazioni, non dimenticando la situazione di grande precarietà e penuria di risorse destinate ai più giovani.


Il saggio di Francesca Candioli  

“Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”. Prendo in prestito una frase di George Orwell per parlare di giornalismo, che sì cambierà - sta già cambiando - in termini di mezzi e modalità d’espressione, ma la forza alla sua base resterà sempre una. La strenua, quanto soffocante, ricerca della verità. Quel percorso di avvicinamento a qualcosa che non esiste, come i granchi sulle spiagge che, racconta una leggenda vietnamita, scavano alla ricerca delle perle. “Io faccio come loro”, spiegava Tiziano Terzani in un’intervista a Carta Bianca, “cerco qualcosa che non esiste proprio come fanno questi animali, ma è proprio questo processo di scavo e avvicinamento alla verità la vera missione di ogni giornalista”. 

Un processo che a volte può fare arretrare anche il più indomito dei cronisti, ma che a lungo andare nel mondo dell’informazione di oggi, dove le notizie tentano di correre più veloce della luce, andrà perdendosi trasformando quello che ora è il buon giornalismo in un piatto di minestra preriscaldata del giorno dopo. Perché a volte correre fa male sia a sé che agli altri, a meno che non si tratti di attività fisica. 

Nel futuro del giornalismo se da una parte ci saranno più possibilità dal punto di vista tecnico, dall’altra aumenteranno le difficoltà. I buoni cronisti, coloro che potranno vantarsi di questo aggettivo, oltre a tenere a mente la frase di Orwell sulla necessità del dire la verità, dovranno non solo saper scrivere e avere fiuto per le notizie, ma mentre prenderanno appunti, tra una tazza di caffè e l’altra, dovranno anche filmare e fotografare. Il tutto accompagnato dal multiplo invio di file audio, qualora ci si trovi in difficoltà – non si sa mai -, in cui fare il resoconto di quanto sta accadendo. Insomma un reporter multitasking, sempre aggiornato e al passo con i tempi che però, alle condizioni attuali, potrà resistere al massimo un paio di mesi. O forse solo qualche settimana prima di essere colto da un esaurimento nervoso in un mondo dell’informazione in cui i compensi, in fatto di numeri e quantità, sono sempre più bassi.  

Nel frattempo il mondo evolve, i tempi cambiano, e nei giorni a venire del giornalismo sempre più massiccio sarà l’uso, soprattutto da parte dei nostri media nazionali, di inviati freelance. Collaboratori esterni, costretti oggi a svolgere lo stesso tipo di lavoro dei loro colleghi, invece assunti, ma a costi differenti, o meglio proporzionalmente convenienti per il giornale. Saranno loro che dovranno diventare sempre più multitasking, e saranno loro che dovranno coprire alcuni tra i servizi più importanti. Non importa come, ma dovranno farlo. E proprio a loro affideremo la nostra informazione, ed indirettamente la nostra verità.  

Oggi il mondo dell’informazione, soprattutto nel Bel Paese, non se la sta passando molto bene: il ricambio generazionale è pura utopia ed il mercato è sempre più saturo. È questo il contesto in cui dobbiamo pensare, o meglio ripensare il giornalismo. E sarà un contesto in cui un quotidiano non potrà più permettersi un corrispondente all’estero, o nemmeno in Italia, e sarà costretto a puntare su quel marasma di collaboratori esterni, costretti a svendere il loro lavoro in una deleteria corsa al ribasso. Il pezzo dunque a chi offre di meno. Chi si aggiudica il lavoro vince, e con settanta euro ci racconterà quanto avviene in Africa. E con cinquanta cosa succede sul fronte di Kiev. Ma come lo farà? Spesso dietro questi collaboratori, a cui stiamo affidando la nostra informazione, si nascondono persone “drogate” di giornalismo, disposte a tutto pur di fare questo mestiere che, però, non vivono d’aria. Il cronista è tra i lavori che, solo in Italia, affascina ogni anno migliaia di giovani, e continuerà ancora per molto tempo a conquistare i sogni nel cassetto di chi questo mestiere sente d’averlo nel sangue. Anche se sono sempre meno coloro che, dopo anni di gavetta e di a volte assoluta fame, arrivano a vivere di giornalismo. Complice anche qui una cattiva informazione, e a volte alcuni corsi di laurea che sfornano illusioni a tradimento. 

In pochi anni si è passati velocemente dal servizio che una volta ti permetteva di viverci, con anche 200 euro per pezzo, al reportage sulla Namibia con cui si arriva a comprare a mala pena un paio di scarpe, o forse neanche. E mentre chi oggi può vantare un’ assunzione certa in un qualsiasi tipo di media, dall’altra parte stanno crescendo i Robin Hood dell’informazione, disposti a tutto pur di trovare una storia per sbarcare il lunario. In questo caso basta davvero poco per far sì che la fame di verità e di notizie si trasformi a lungo andare in una ricerca disperata al mio miglior servizio da parte di cronisti che, prima di concentrarsi sull’inchiesta in sé, penseranno a quanto potrà fruttarli. Un po’ come un investimento in borsa. Se non conviene, non rilancio, sto fermo. E quindi non approfondisco, lascio correre. Nel giornalismo, però, diversamente dall’economia, a farne le spese non sarà solo il nostro conto in banca, ma tutta la società. Per ogni storia non raccontata, o raccontata male, ci sarà sempre una mancata informazione data, un mancato approfondimento, un mancato grido inascoltato, una mancata verità svelata.  

Il futuro del nostro essere informati bene e dovunque sarà sempre più in mano a questo genere di giornalisti, costretti a fare contemporaneamente altri due o tre lavori, ma che senza un’adeguata retribuzione, ed un giusto riconoscimento del loro lavoro, non riusciranno più a garantire quella ricerca della verità, strenua e soffocante, che deve esserci dietro ogni buona inchiesta. Una volta sorpassato il proprio limite di sopportazione personale, ognuno di loro cercherà d’arrangiarsi, producendo di più e male. Cercando la via più facile per concludere alla svelta un’inchiesta da inviare, di cui si è capito poco e nulla. Tutto in fretta e in furia perché c’è l’affitto da pagare, e quegli altri due pezzi da terminare. L’ansia, la paura di non arrivare a fine mese ed il surplus di lavoro, potrebbe sfiancare anche l’Enzo Biagi o l’Indro Montanelli del 2035.  

Il giornalismo del futuro non sarà dunque minacciato dal computer, come pensavano i cronisti di qualche anno fa, ma dal sistema dell’informazione che fino ad oggi si è costruito passo a passo. Seppure dotati di nuovissime tecniche per documentare quanto avviene in Sri Lanka da Roma, o per parlare con il rappresentante delle industrie tedesche sperduto su qualche piattaforma petrolifera, perderemo sempre più di vista il nostro io in un turbinio di omologazione quotidiana. 

Il cronista del futuro si muoverà solo dove c’è instabilità e correrà di persona solo quando si deciderà, in base a nuovi criteri, che una determinata notizia ha un peso. Molte storie, così, non verranno mai raccontate, ma al massimo solo sfiorate. Nessuno ci racconterà più gli odori della guerra perché sempre meno saranno i freelance disposti a vendere cara la pelle per poche decine di euro e senza alcun tipo di assicurazione in quanto, per l’appunto, solo collaboratori esterni. Nessun satellite ti racconterà l’adrenalina che pompa a mille mentre piovono le bombe. E così la macchina diventerà migliore, ma peggioreranno i suoi conducenti. Perché le tue storie le fai solo se vai, se le senti fino al midollo, se le conosci e se le hai provate sulla tua pelle.  

Contemporaneamente andrà avanti, rinforzata anche da questo sistema dell’informazione che andrà a crearsi, la favola del citizen journalism. Una bella storia che ci siamo raccontati, ma che non funzionerà. Sempre più in futuro i cittadini avranno a disposizione un sovrannumero di informazioni che dovranno imparare a selezionare. Ed è qui che i grandi media si giocheranno la partita della loro storia: dovranno dimostrare di essere credibili. Più credibili rispetto alla montagna di notizie che si possono trovare online, grazie anche ai cittadini che si improvvisano blogger – è una bella cosa, ma il giornalismo è tutt’altro -, o a tutti i nuovi siti d’informazione presenti sul mercato. Qui, chi vorrà distinguersi, dovrà mantenere alta innanzitutto la qualità, ed offrire sempre qualcosa di diverso. 

In un futuro dove si avranno sempre meno risorse disponibili, il lavoro del giornalista dipenderà dalla sua capacità di riconoscere i propri limiti e dalla capacità del suo giornale, della sua radio e della sua tv di riuscire a garantirgli non solo una spalla a cui appoggiarsi, ma anche una sicurezza economica. Per fare tutto ciò, però, si ritorna alla tesi centrale del saggio. Occorre investire – sembra quasi una ricetta - più che sulle tecniche e sulle idee in sé, sulle persone e le loro capacità. Solo così otterremo tre cose in un colpo solo: una buona informazione per noi e per tutti, un giornale o un media che vende, e cronisti non più affamati, ma innamorati del loro mestiere. 

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