Dolomiti / La tragedia

Dellantonio: «Subito dopo la sciagura in Marmolada non c'erano certezze, ma nessuno si è tirato indietro»

Il presidente nazionale del Soccorso alpino racconta i drammatici momenti del pomeriggio di domenica 3 luglio e le successive operazioni sul ghiacciaio: «Potevano esserci altri crolli: dovevamo salvare vite. Fin da subito le testimonianze dirette ci avevano dato le proporzioni del disastro. E questa consapevolezza, assieme alla tempestività dei soccorsi, è stata fondamentale»

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di Leonardo Pontalti

TRENTO. «La prima cosa a cui ho pensato è stata la Val Lasties. Non potevamo permetterci un'altra situazione del genere».

Quella di Maurizio Dellantonio, presidente nazionale del Soccorso alpino, è una mezza verità. Perché quella della sicurezza dei soccorritori è stato solo il secondo pensiero.

«Quando ti chiamano, vai e cerchi di salvare quante più vite sia possibile. Domenica scorsa nessuno, quando è stato dato l'allarme, aveva la certezza che non sarebbe venuta giù altra roba. Eppure nessuno si è tirato indietro».

Al termine di una settimana terribile, il cinquantanovenne fassano, alla guida del Corpo nazionale dal 2015, ha ripercorso queste giornate dolorose, faticose, estenuanti.

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I vertici del Soccorso Alpino dell’Alto Adige ribadiscono che i pericoli sono sempre in agguato. Fondamentale è affidarsi all’esperienza di professionisti e valutare costantemente, ora dopo ora, l’evolversi delle condizioni meteo e della neve. Se il rischio diventa evidente, importante è avere la lucidità e freddezza di rinunciare e tornare a valle.

Dov'era domenica al momento del distacco?

«Sul Garda, era una bellissima giornata. Ho lasciato il lago in tutta fretta e sono salito in Val di Fassa».

Erano emerse fin da subito le proporzioni della tragedia?

«Certo, purtroppo sì. C'erano le testimonianze dirette di chi era sul posto, di chi ha visto la massa scivolargli di fianco. E questa consapevolezza, assieme alla tempestività dei soccorsi, è stata fondamentale».

È stato fatto davvero tutto il possibile, come è stato sottolineato in questi giorni?

«Tutto, l'ho detto anche ai familiari. Abbiamo la fortuna, lungo l'arco alpino, di avere una rete di soccorritori, di sistemi di elisoccorso, di basi, di competenze tra gli operatori, che non ha eguali. Davvero è stato fatto tutto quanto poteva essere fatto: dal recupero dei feriti alla messa in sicurezza di chi si trovava potenzialmente in pericolo, fino al recupero delle vittime. Ma davvero, chi poteva essere salvato, è stato salvato».

Anche mettendo a rischio l'incolumità dei soccorritori stessi.

«Lo ribadisco: quando domenica pomeriggio è stato il momenti di intervenire, nessuno poteva dare garanzie a nessuno. Eppure si era lì in tanti. E le persone che sono state salvate non sono state poche. Alcune erano già sepolte e si sarebbero aggiunte alla conta delle vittime: le hanno trovate ed estratte subito grazie alle corde che spuntavano dai detriti».

Poi il pensiero della Val Lasties.

«In quarant'anni di Soccorso alpino io e con me molti altri abbiamo avuto a che fare con tante tragedie. Lo scenario di morte a cui abbiamo assistito non è stato purtroppo diverso da quelli che tornano alla mente pensando a Stava, al Cermis, a Rigopiano, ai terremoti. Ma è la Val Lasties che mi è subito tornata alla mente. Non potevamo permetterci di mettere a repentaglio la vita dei soccorritori come accaduto allora».

Nella serata del 26 dicembre 2009 gli uomini del Soccorso alpino dell'Alta Fassa Diego Perathoner, Erwin Riz, Alex Dantone e Luca Prinoth avevano perso la vita dopo essere stati travolti da una valanga dalla quale erano usciti vivi solo altri tre soccorritori, Sergio Valentini, Roberto Platter e Martin Riz. Erano partiti nel pomeriggio da Canazei per cercare due scialpinisti friulani di cui non si avevano più notizie dalle ore precedenti e che furono poi trovati senza vita nel canalone che si apre tra il Sass Pordoi e il massiccio del Sella.

«Così - prosegue Dellantonio - una volta ultimata la prima fase dei soccorsi, nell'immediato, si è subito pensato a come organizzare il lavoro di ricerca in sicurezza. Intendiamoci, anche nel pomeriggio di domenica la presenza di operatori esperti, di istruttori nazionali del Soccorso alpino, ha garantito che le operazioni si svolgessero al meglio. Ma senza garanzie. Quelle che abbiamo cercato di assicurarci nelle fasi successive».

Dopo domenica c'era la già la certezza che non avreste trovato sopravvissuti.

«Già domenica quando si è tornati a valle. La tempestività dell'intervento, il numero di persone in azione, la loro esperienza, il contesto stesso della sciagura ci avevano già detto che chi poteva essere salvato era stato salvato e chi mancava all'appello era sotto metri di materiale. L'ho già detto nei giorni scorsi: la speranza, soprattutto da parte dei familiari è sempre legittima e va sempre alimentata. Ma in Marmolada si è scontrata da subito con la realtà. Anche noi soccorritori abbiamo sperato anche oltre il limite del plausibile, per tutta la serata di quella giornata e per la notte successiva i droni hanno continuato a sorvolare la zona, con la montagna illuminata a giorno da passo Fedaia».Anche quelli successivi alla devastante domenica non sono stati giorni facili.«Il lunedì si era deciso di fermare le operazioni da terra. Non era ancora chiaro quale fosse il rischio di nuovi distacchi. Eppure con i droni è stato fatto un lavoro eccezionale e i recuperi sono stati numerosi. Per due giorni lo strazio dalla montagna si è trasferito a Canazei, dove arrivavano i reperti».

C'è qualcuno dei soccorritori che ha ceduto, emotivamente, di fronte a quello a cui ha assistito?

«Sono state giornate pesanti, pesantissime, per tutti. Ma come dicevo, il soccorritore sa a cosa va incontro. Non ci si abitua mai, ma si sa quello a cui si potrebbe assistere. Questo non vuol dire che non ci siano ripercussioni emotive. Io stesso non so ancora dire come metabolizzerò queste giornate. So che per giorni si andava a dormire dopo le 23 e la sveglia era puntata alle 4.30. E non l'ho mai sentita: ero già sveglio prima».

Si è arrivati relativamente in fretta a chiudere il mesto bilancio delle vittime.

«Il timore era che alcuni dei dispersi potessero essere finiti in qualche crepaccio poi sepolto dal materiale ma il lavoro che è stato messo in piedi nei giorni scorsi è stato incredibile. Tenete conto che sono state messe a disposizione le tecnologie più avanzate. E poi i droni. E i cani: fondamentali,  domenica 10 luglio sono stati fatti recuperi anche a parecchi metri sotto fango e roccia, grazie ai cani».

Oltre al dolore, alla fatica, cosa le resterà di questa tragedia?

«Molte conferme. Quella della consapevolezza del valore di una macchina dei soccorsi come la nostra e non parlo solo di Soccorso alpino ma di tutte le realtà che hanno collaborato in questo frangente. Anzi, voglio approfittare per ringraziare le istituzioni, le amministrazioni locali, tutte le forze dell'ordine e le realtà del soccorso e del volontariato con cui si è lavorato al meglio in sinergia in questa circostanza tragica, non facile. E proprio il volontariato riguarda l'altra conferma arrivata in questi giorni. Troppo spesso chi opera in un settore da professionista guarda al volontario come a una persona che non sa come riempire il proprio tempo libero, quando invece è una vocazione a muoverli e a spingerli spesso a conquistare livelli di competenza pari se non superiore a quelli dei professionisti, assieme ad una abnegazione incredibile».

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