La sentenza di condanna nelle bussolle del palazzo

I suoi guai giudiziari - con tanto di sentenza e articolo di giornale abbinato - sarebbero finiti «in pasto» a condòmini, vicini di ufficio e persone con cui aveva rapporti di natura professionale. In alcuni casi messi direttamente nelle bussole delle lettere, in altri recapitate ai destinatari in una busta. Un’azione che, nella prospettiva della vittima, avrebbe avuto l’obiettivo di screditarlo e di fare intorno a lui terra bruciata nel campo del lavoro.

Sotto accusa, per le missive distribuite, è finito un libero professionista, che si trova ora a processo, imputato per diffamazione e che invece, nel procedimento a carico dell’imprenditore, conclusosi con un patteggiamento, figurava come parte offesa.

Ma andiamo con ordine. La singolare vicenda finita davanti al giudice Giuseppe Serao - ma sulla competenza dovrà pronunciarsi la Cassazione - risale ad un paio di anni fa e si sarebbe svolta in città tra l’estate e il dicembre del 2016.

Secondo quanto viene contestato nel capo di imputazione il professionista finito sotto accusa si sarebbe improvvisato «postino» e, con l’aiuto di una persona non identificata, avrebbe messo nella cassette postali degli uffici e delle abitazioni del condominio dove l’imprenditore aveva il suo ufficio, una missiva contenente copia della sentenza con cui alla parte offesa veniva comminata una pena di 8 mesi (sospesa) per tentata estorsione ai danni dello stesso imputato. Contestazione, va detto, che lo stesso imprenditore aveva peraltro sempre respinto. Un provvedimento unito anche all’articolo di giornale che dava conto di quella vicenda.

Ad informare l’imprenditore di quanto accaduto sarebbe stato proprio uno dei destinatari, un professionista con cui aveva a che fare per ragioni di lavoro, che gli avrebbe mostrato sia la copia della sentenza che l’articolo di giornale. Qualche giorno dopo, inoltre, la presunta vittima dell’azione diffamatoria avrebbe scoperto che anche ai condomini dello stabile dove aveva lo studio erano stata recapitata la stessa nota informativa: dunque copia della sentenza di patteggiamento e relativo articolo di giornale.

Alla fine, sarebbero state una cinquantina dunque le persone informate dei guai giudiziari in cui era incappato l’imprenditore. Ma la missiva, come detto, non indicava alcun mittente. I sospetti dell’imprenditore, però, visto l’oggetto della comunicazione divulgata, sarebbero caduti proprio sull’imputato. E dalla visione dei filmati registrati dalle telecamere del condominio, almeno stando a quanto sostenuto dall’accusa, sarebbe arrivata la conferma che il libero professionista si era recato presso la struttura con un’altra persona.

A quel punto l’imprenditore, che nel frattempo avrebbe avuto notizia di altri professionisti raggiunti da analoghe comunicazioni, ha deciso di sporgere denuncia. Il professionista, come detto, respinge però al mittente le accuse e nega di essere l’autore di una campagna diffamatoria ai danni dell’imprenditore trentino.

Ora sarà un giudice a stabilire se l’imputato abbia divulgato quel materiale e se questo si configuri come un’attività diffamatoria. La palla, per ora, è però nelle mani dei giudici della Cassazione. La vicenda, infatti, in un primo momento era finita sul tavolo del giudice di pace che, ritenendo si trattasse di una diffamazione a mezzo stampa, si era dichiarato incompetente. Una qualificazione del fatto che la stessa procura, peraltro, non condivide, ritenendo che si tratti di una fattispecie di diffamazione semplice, dunque di competenza del giudice di pace.

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