Critiche al decreto sulle Popolari e adesso si teme per le Rurali

Dopo «trent’anni» il governo vara la riforma per le banche popolari. Non tutte, ma solo «le dieci più grandi» con almeno 8 miliardi di attivi, avranno un anno e mezzo di tempo per cambiare pelle, eliminare il voto capitario (una testa un voto) e trasformarsi in Spa.

di Redazione Web

Dopo «trent’anni» il governo vara la riforma per le banche popolari. Non tutte, ma solo «le dieci più grandi» con almeno 8 miliardi di attivi, avranno un anno e mezzo di tempo per cambiare pelle, eliminare il voto capitario (una testa un voto) e trasformarsi in Spa nella quali dunque i soci peseranno in proporzione alle azioni detenute.

Un «momento storico» dice il premier Matteo Renzi, ribadendo che il Paese, pur potendo vantare un sistema bancario «serio, solido e sano», ha però «troppi banchieri e troppo poco credito» e che l’obiettivo dell’intervento del governo è rafforzare il sistema per essere pronti alle sfide europee ma senza «danneggiare i piccoli istituti» e senza toccare «il credito cooperativo». Ma il provvedimento, fortemente sollecitato dalle istituzioni europee (Bce in testa), sta scatenando una lunga serie di reazioni critiche, sia in Parlamento sia fra i rappresentanti degli istituti di credito coinvolti. Da più parti, centrodestra, centrosinistra (vari esponenti Pd) e opposizioni, si è affermato che ild ecreto andrà corretto sensibilmente nel passaggio in aula.

«L’intervento sulle banche popolari di maggiori dimensioni colpisce un modello che, con tutti i suoi limiti nella traduzione effettiva, certamente da correggere, è uno dei pochi presidi di democrazia economica presenti nel nostro Paese. Ridimensiona, inoltre, per le piccole e medie imprese e per le famiglie l’unico canale di accesso al credito rimasto aperto anche durante la crisi. È un danno per l’Italia, ma è un grande favore per le grandi istituzioni finanziarie internazionali. Dopo l’intervento di svalutazione del lavoro realizzato con il cosiddetto Jobs Act, il governo Renzi attua un altro fondamentale capitolo dell’agenda della Troika», ha attaccato l’esponente della minoranza Pd Stefano Fassina, già viceministro dell’economia nel governo Renzi.

«La decisione sulle banche popolari ci preoccupa moltissimo. C’è il rischio che queste aziende vengano acquistate per un tozzo di pane da imprenditori che, poi, possono metterne in discussione gli assetti occupazionali. Con questo progetto, inoltre, si trasforma la natura delle banche popolari la cui peculiarità è quella di essere vicine al territorio. Ora, invece, potrebbero sovrapporsi per funzioni e caratteristiche a quelle Spa di cui il mercato è già saturo», commenta Carmelo Barbagallo, segretario generale della Uil, riassumendo l’inquietudine diffusa nel mondo sindacale. «Noi non crediamo - ha aggiunto - che ci sia la condizione d’urgenza per un decreto e, comunque, auspichiamo una discussione parlamentare per apportare modifiche a questo provvedimento che sono assolutamente necessarie», conclude.

Interviene anche l’ex presidente del Trentino Lorenzo Dellai, oggi deputato di Democrazia solidale e presidente del gruppo parlamentare Per l’Italia-Centro democratico: «Occorre che il governo proceda con grande prudenza e senza superficialità nella riforma del credito cooperativo. Qualche intervento nel campo delle grandi banche popolari può avere un senso. Costringere le piccole e medie banche cooperative a macro fusioni, imponendo soglie di patrimonializzazione irragionevoli, rischia invece di distruggere uno dei modelli di credito che nel nostro Paese ha avuto ed ha un ruolo importante nello sviluppo locale e nella tenuta del sistema sociale, indebolendo il legame con il territorio e con le componenti civili e sociali che lo animano.
Oltretutto la cronaca anche recente ci dice che non tutto ciò che è grande nel mondo del credito è anche automaticamente efficiente e trasparente. Giusto dunque rafforzare gli strumenti di garanzia in linea con la tendenza a livello europeo, ma occorre che le misure siano proporzionate e di buon senso e non pensate o utilizzate per cancellare una presenza essenziale - sopratutto in alcune parti del Paese - per la democrazia economica».

Di un «blitz senza precedenti» parla il deputato trentino del Movimento 5 Stelle Riccardo Fraccaro. «Renzi - sostiene - si appresta a svendere le casseforti del risparmio italiano all’alta finanza. Il governo prende di mira le banche popolari, che verranno addirittura cancellate per decreto e gettate in pasto ai grandi gruppi internazionali. Si tratta di istituti radicati sul territorio, fondati sul pluralismo della proprietà, che rappresentano l’unica fonte di credito per famiglie e imprese.
Invece di imporre alle grandi banche di restituire all’economia reale i miliardi di euro ricevuti in regalo dalla Bce, il premier - prosegue Fraccaro -succube dei poteri forti vuole imporre il modello Spa per tutti gli istituti di credito.
Verrà abolito il sistema di governance fondato su un voto a testa, il tetto massimo di azioni e il numero minimo di soci.
Ciò significa che le piccole banche potranno essere cannibalizzare dai grandi oligarchi della finanza internazionale».

Il senatore leghista Sergio Divina lancia a sua volta l’allarme: «Il governa si appresta a modificare il regime operativo delle Banche popolari. Poi sarà il turno delle Bcc ossia delle Casse rurali.
Stranamente questi due tipi di istituti di credito sono quelli che meglio hanno superato i momenti di crisi dal 2008 ad oggi.
La conoscenza del territorio, degli imprenditori, dei clienti ha fatto si che le Casse rurali, ancorchè toccate dalla crisi, non dovessero sopportare le sofferenze che invece hanno toccato fortemente tutte le altre banche italiane ed europee.

I direttori delle Popolari e delle Rurali, in virtù delle conoscenze personali, hanno erogato crediti a clientele molto più affidabili e raramente sono incappati in incagli e sofferenze dovute alla scarsa solvibilità dei debitori.
Le grandi banche, invece, hanno operato con altri sistemi, facendo più finanza che credito ed abbiamo visto importanti salvataggi solo grazie agli aiuti governativi, sia attraverso i Tremonti-bond sia diretti come da ultimo il Monte dei Paschi di Siena.

Ora il governo vorrebbe cancellare l’importante esperienza delle banche capitarie, dove ogni socio ha un solo voto, per sottoporle tutte alle regole civilistiche dell’azionariato societario, dove contano solo i soci con più quote e le dimensioni della società.
Noi trentini rischiamo di veder vanificato più di un secolo di esperienze cooperativistiche, che hanno permesso, attraverso le Casse rurali, anche a territori con pochissime risorse di poter giocare la carta della mutualità, sola che ha permesso nel corso del secolo scorso di veder crescere e prosperare aree e territori penalizzati geograficamente che altrimenti avrebbero solo subito il fenomeno migratorio.
Il testo avrà la forma del decreto legge, ancorché non esista nessuna forma di urgenza per procedere, ma questo perlomeno consentirà al Parlamento ed a noi senatori, in sede di conversione, di poter esprimere tutta la nostra contrarietà a questa operazione», conclude l’esponente del Carroccio.

Per parte sua non usa mezzi termini nel commento al decreto il professore di storia economica della Statale di Milano Giulio Sapelli: «Un colpo di stato bancario», un «golpe che puzza di incostituzionalità» ai danni «dell’unico esempio di democrazia economica che ha il nostro Paese», afferma.
«È un atto grave - prosegue - che avviene in un momento di vacatio istituzionale» alla presidenza della Repubblica: «Il governo delibera un decreto che Giorgio Napolitano non avrebbe mai firmato essendo sempre stato a difesa del mondo del credito cooperativo. È un decreto legge che puzza di incostituzionalità, non è pensabile che possano essere modificati con la legge gli statuti di banche che sono private.
È una roba che non sta né in cielo, né in terra».

E la cosa più paradossale, rincara il docente milanese, «è che questo colpo di stato bancario arrivi da un governo di sinistra, che dovrebbe sapere bene che le popolari sono le uniche banche vincolate per statuto a destinare l’utile d’esercizio sul territorio. Guardiamo, ad esempio, alla Germania: la forza di quel Paese sta proprio nel sistema di credito cooperativo che si fonda sulle Landesbank e le Sparkasse».

Secondo Sapelli, quindi, il vero obiettivo della riforma «è utilizzare i patrimoni delle popolari», uscite meglio di altri istituti dalla crisi, «per coprire i buchi di Mps e Carige», bocciate in malo modo agli esami della Bce con forti deficit di capitale. Inoltre, «quella raccontata dal governo di varare questa riforma per favorire l’erogazione del credito è soltanto una scusa; in verità le popolari verranno assimilate alle altre banche capitaliste che da tempo non offrono più credito».

«Spero che i costituzionalisti insorgano, si facciano sentire. Bisogna che venga sollevata l’eccezione di incostituzionalità» di questa riforma. «Si tratta di un vero e proprio esproprio dei soci dalle proprie banche. C’è un articolo della costituzione che difende la cooperazione. Ho la sensazione però che il ministro Padoan non sappia proprio cosa sia il sistema delle banche popolari».

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