In montagna: i club alpini

In montagna: i club alpini

di Alessandro Beber

Per lunghi secoli le genti di montagna hanno vissuto le loro esistenze al cospetto delle cime senza sentire alcuna esigenza di salirvici sopra, o quasi. Presumibilmente erano troppo intente a sopravvivere per concedersi simili, futili svaghi.

Poi sul finire del Settecento alcuni intellettuali illuministi iniziarono ad essere attratti dalle rocce e dai ghiacciai delle alte quote, ed incuranti delle superstizioni popolari che vedevano nei monti luoghi orridi e pericolosi, regno del demoniaco e del primitivo, iniziarono ad avventurarsi per le Alpi armati di rudimentali strumenti di misurazione. Ma pure la nobiltà dell’intento scientifico fu ben presto travolta dalla corrente culturale romantica, che tra le vette trovò il proprio terreno d’elezione: il confronto con una natura primordiale, potente e ingovernabile, divenne una vera e propria ossessione per folte schiere di gentiluomini benestanti, per lo più inglesi.

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Vocati alla ricerca del Sublime, in montagna ritrovavano quell’intensità emotiva che doveva scuotere l’animo umano, in un vortice di sentimenti contrastanti: incanto e repulsione, malinconia e gioia di vivere condensate sotto lo stesso cielo. Siamo verso la metà del XIX secolo, e questi pionieri dell’Alpinismo sentono l’esigenza di riunirsi sotto un vessillo comune: nel 1857 viene fondato l’Alpine Club inglese, seguito nel 1862 dall’Österreichischer Alpenverein austriaco nel 1862 e dallo Schweizer Alpen Club svizzero assieme al Club Alpino Italiano nel 1863. Queste associazioni avevano, ed hanno tutt’ora, lo scopo principale di promuovere la frequentazione della montagna, e specialmente nei primi decenni della loro esistenza si adoperarono tra le altre cose alla costruzione di rifugi e bivacchi in quota.

Per quanto riguarda il Trentino, nel 1872 nacque la Società Alpina del Trentino, successivamente Società degli Alpinisti Tridentini, per tutti semplicemente la SAT, che nel 1920 venne integrata ufficialmente come sezione regionale del CAI. Oggigiorno queste associazioni raccolgono centinaia di migliaia di iscritti (più di 300.000 tessere per il solo Club Alpino Italiano) e svolgono un insostituibile lavoro di formazione, manutenzione e tutela dell’ambiente montano. Le migliaia di chilometri di sentieri resi agibili dall’annuale intervento dei volontari sono forse l’evidenza principale del loro operato, ma il ruolo più delicato e strategico è a mio avviso quello della sezione Alpinismo Giovanile, che si occupa di avvicinare al mondo della montagna le nuove generazioni.

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Quanti di noi, da ragazzi, hanno fatto le loro prime esperienze in quota proprio grazie alle sezioni locali della SAT? Bene, se riflettiamo sull’andamento della nostra società attuale, dove il distacco dall’ambiente naturale è sempre maggiore, è facile capire come certe occasioni diventino ancora più preziose, proprio perché rare. Sarebbe dunque opportuna una riflessione a riguardo da parte delle istituzioni, che dovrebbero cogliere l’importanza fondamentale di questo anello di congiunzione tra i cittadini trentini e il territorio che li circonda, incentivandone l’operato in maniera sistematica anche all’interno degli istituti scolastici.

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L’esperienza insegna che solo chi conosce e frequenta il posto dove vive, riesce ad apprezzarlo pienamente e a sviluppare quel senso di attaccamento che tanto influisce sul benessere delle persone. Per contro, «La zént senza raìs la va’ a volt col prim vent», sperando ci sia ancora qualcuno tra chi legge che intende il vernacolo. Mi verrebbe quindi spontaneo pensare che quasi 27.000 soci (tanti sono gli iscritti alla SAT) siano una risorsa umana da mettere in campo in primo luogo per educare i nostri figli, prendendoli per mano e portandoli alla scoperta dell’oro nascosto dietro casa. Se riusciranno almeno un poco, a lasciarsi incantare dalle montagne come fecero i Romantici oltre un secolo e mezzo fa, di certo si batteranno anche per preservare e valorizzare tanta bellezza.

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