La guerra alla Grecia raccontata dal "Brennero"

La guerra alla Grecia raccontata dal "Brennero"

di Luigi Sardi

Il titolo de “Il Brennero”, il “Quotidiano Fascista Tridentino” che aveva come motto “Col Duce per il Duce” di mercoledì 30 ottobre 1940 è a tutta pagina: “Le nostre truppe penetrate per vari punti in territorio greco”. I lettori erano rimasti sbalorditi. Un altra guerra? Ma perché contro la Grecia? C’era stata quella contro la Francia con la conquista, si fa per dire, di Mentone, cioè niente. Continuava quella contro l’Inghilterra che si faceva sempre più dura sul mare, nei cieli, in Cirenaica, in Somalia  e attorno a Malta. Francamente non si capiva perché il Regio Esercito avesse attaccato la Grecia, né il giornale lo spiegava limitandosi a dire in un fondo davvero inconcludente del direttore Guido Gambarini, che “il filo gallismo è una malattia ricorrente come l’emicrania delle donne” e che in Grecia “un altro nodo albionico sta per essere troncato” dove quell’ “albionico” nel lessico fascista indicava la “perfida Albione” cioè l’Inghilterra “del ministro Ciurcillone”, quel sir Winston Leonard Spencer Churchill il grande bersaglio della stupidaggine fascista.

Neppure Italo Foschi, il federale di Trento fu in grado di dare una spiegazione sull’accadimento. Nella Casa del Fascio disse ai camerati che, forse, si trattava di un’azione di polizia contro bande di contrabbandieri, oppure per proteggere la minoranza ciamuriota, cioè albanese oppressa, secondo il pensiero di Mussolini, dai greci. Comunque ordinò una dimostrazione di giubilo ma, lo ricordavano negli anni Sessanta i trentini che avevano vissuto quel tempo, il meno amabile che il genere umano abbia conosciuto per molti secoli, fu un fallimento. In pochi si presentarono davanti alla citata Casa. Nessuno aveva capito perché si dovessero odiare i greci al punto di andare nella loro terra per ammazzarli e farsi uccidere e qualcuno, il giorno dopo incendiò ai piedi della statua di Dante un pacco di giornali “Il Brennero”.

Raccontò Beppino Disertori, psichiatra, filosofo, politico, partigiano, uomo di scienza, che a compiere quel gesto di ribellione fossero stati Giannantonio Manci con l’editore Egidio Bacchi rammentando che il popolo italiano, fatta eccezione di un piccolo gruppo di capi fascisti, già fortemente contrario alla dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra, rimase sbalordito apprendendo l’apertura del nuovo, improvvioso fronte.

Sempre Disertori spiegò che era diffuso un generale timore, che non era ancora odio, verso la Germania e il suo governo nazista; c’era la convinzione che l’avvenire d’Italia sarebbe stato più sicuro in un mondo in cui le potenze occidentali fossero restate in una posizione di preminenza e una gran parte dell’opinione pubblica, soprattutto quella che solo vent’ anni prima aveva maggiormente sofferto l’enorme tragedia delle Grande Guerra, si rendeva conto che l’Italia avrebbe commesso un errore fatale prendendo parte ad una guerra da cui, chiunque potesse uscire vincitore, il popolo italiano non aveva nulla da guadagnare.

Ricordava Indro Montanelli giornalista e testimone di quelle giornate, che Giovanni Metaxas il generale che guidava la Grecia, era un dittatore di stampo fascista che poteva essere alleato del Duce, ma a Mussolini non interessava avere altri alleati a buon prezzo, ma un avversario da sconfiggere facilmente per opporsi alla supremazia assoluta delle Germania che lo affascinava e allo stesso tempo, lo spaventava. A Palazzo Venezia gridò “Hitler mi mette sempre di fronte al fatto compiuto. Questa volta lo pago della stessa moneta: saprà dai giornali che ho occupato la Grecia”. Non aveva capito che l’ alleato lo informava all’ultimo momento delle decisioni politiche e militari, ammaestrato da quanto avvenuto mesi prima, quando da parte italiana si erano preavvertiti i belgi che l’invasione dei loro paese rientrava nei piani tedeschi della guerra lampo.

Contro la Grecia nasceva la “guerra parallela” con il Duce, caporale del Bersaglieri nella Grande Guerra deciso ad imitare il Fhürer, caporale di fanteria nel 1914 nell’ esercito germanico sul fronte delle Fiandre. In quel momento si andò concretizzando la fine del fascismo e del nazismo. Fu l’ “oki”, il “no” greco gridato dai soldati di Atene, a diventare lo slogan nazionale della guerra all’aggressore italiano e dare, faticosamente, l’inizio della rivolta degli europei liberi contro il Patto d’Acciaio. Davvero quel metallo affascinò dopo il 1919 i rivoluzionari visto che anche il georgiano Iosif Vissarionovič Džugašvili si fece chiamare “stalin” che in russo significa figlio dell’acciaio.

Il nuovo fronte era stato appena aperto quando Hitler e Mussolini si incontrarono a Firenze dove il Duce “euforico” come ricordavano i testimoni dell’epoca fra i quali c’ era, forse, Aldo Nicolao nato nel 1921 a Rovereto e autorevole collaboratore nell’autunno del 1959 nella redazione di Trento dell’Alto Adige, annunciò che l’offensiva italiana era in corso. Hitler dissimulò la sorpresa, ma nel viaggio di ritorno sul treno corazzato disse che “gli italiani non concluderanno niente con le piogge dell’autunno e le nevi invernali”. Il Führer cercò di fermare quel piano pazzesco, ma fece buon viso a cattivo gioco. Poi la Wehrmacht fu costretta ad invadere la Jugoslavia per soccorrere gli italiani spostando al 21 giugno l’inizio dell’aggressione all’Unione Sovietica. Se l’ “Operazione Barbarossa” fosse iniziata a marzo come era previsto, le armate di Hitler non si sarebbero trovate di fronte al generale inverno che cominciò a segnare la sconfitta dell’Asse. Ma quel giorno a Trento, il giornale fascista, in attesa di notizie su quanto stava accadendo in Grecia, diede ampio spazio all’incontro di Firenze con il messaggio del Führer al Duce dove si legge: “Con le armi dei nostri eserciti e con la fede dei nostri popoli, nessuno ci potrà più strappare la vittoria”. Che in quell’autunno sembrava a portata di mano.

Era stata l’ Eiar, la radio del regime, a confermare la notizia che all’alba del 28 ottobre le truppe italiane si erano messe in marcia dall’Albania per attaccare la Grecia con gli obiettivi di conquistare in pochi giorni Patrasso, Corinto, Prevesa e giovedì 31 ottobre, “Il Brennero” intitolando “la nostra guerra” scrisse a caratteri cubitali “ Le truppe italiane avanzano in territorio greco – vincendo resistenze di retroguardie nemiche”. Ma nessuno aveva detto che al primo ponte fatto crollare con la dinamite dagli euzoni, i soldati scelti di fanteria da montagna, le truppe automontate furono costrette a fermarsi e abbandonare i Lancia 3R mentre i battaglioni delle Camice Nere albanesi, gli schipeteri traduzione italiana da Shqiptarët, lasciate le caserme per raggiungere il confine greco albanese, qualche volta dopo aver disarmato o ucciso ufficiali e graduati italiani, si erano dileguati sulle montagne per raggiungere i greci.

Nel giorno dell’invasione pioveva a dirotto, il freddo era già intenso e cosa ben più grave i soldati del Regio Esercito iniziarono una campagna invernale su un terreno montuoso, impervio, in parte sconosciuto dove non c’erano strade ma mulattiere, senza un adeguato equipaggiamento perché indumenti e scarponi realizzati con materiale autarchico, erano disastrosamente scadenti. Disastroso anche il materiale bellico; del tutto insufficiente il sistema logistico. Erano necessarie diecimila tonnellate di rifornimento al giorno ma i due porti principali, Durazzo e Valona avevano, in condizioni atmosferiche ottimali, una capacità di scarico di quattro tonnellate mentre la traversata del braccio di mare da Ancona era insidiata dai sommergibili e dall’ aviazione inglese. I generali, a cominciare da Pietro Badoglio condottiere in Grecia, Maresciallo d’Italia, Senatore del Regno, marchese del Sabotino, duca di Addis Abeba e capo del Governo Italiano dopo l’ settembre del 1943 – ma il suo nome fu inserito nella lista dei criminali di guerra su richiesta dell'Etiopia, però non venne mai processato – avevano conosciuto sul Carso e sui monti del Trentino la tragedia della guerra d’ inverno. Eppure avevano scatenato l’assalto alla vigilia di novembre quando sulle montagne del confine greco albanese già nevicava e i soldati dovevano sopravvivere all’aperto, in buche e tratti di trincee scavati in tutta fretta, avvolti nelle mantelline, nelle fasce mollettiere che coprivano le gambe dal piede al ginocchio e si gonfiavano con l’acqua per indurirsi con il freddo. Il rancio era sempre scadente e in prima linea arrivava freddo; i soldati temevano che i greci avessero avvelenato i pozzi, sapevano che raramente facevano prigionieri e scoprirono la micidiale precisione dei mortati manovrati dai militari ellenici. C’è il ricordo del grande invalido Guido Righi che abitava a Villazzano dove si vedeva camminare lentamente appoggiandosi ad un bastone nella consueta passeggiata mattutina. Era in una pattuglia di sette uomini che d’ invero, di notte, su una montagna dell‘ Albania, venne falciata da una raffica di mitragliatrice sparata da soldati del contingente inglese accorso in aiuto dei greci. Sei Alpini vennero uccisi, la raffica gli spaccò una gamba, venne salvato dal dissanguamento e dal congelamento da un commilitone che lo prese in spalla e lo portò fino al primo ospedaletto da campo. Lui raccontò tutto l’orrore del fronte greco-albanese identico a quello sofferto sul Carso dal 1915 al novembre del 1918.  

Era l’anno XX dell’ Era Fascista quando cominciò a spegnersi l’entusiasmo per il Duce; sul fronte della Grecia i soldati si resero conto che combattevano con le armi del 1915 e le più efficaci – cannoni, mitragliatrici – erano quelle catturate all’esercito austriaco. L’aviazione dispersa fra il fronte libico, il Mediterraneo e quello greco mostrava i limiti di un’industria in totale difficoltà. Da ricordare che il 26 luglio di quel 1940 Galeazzo Ciano annotava nel suo diario: “Nel primo mese di guerra le perdite della nostra aviazione ammontano a 250 apparecchi. Identica ne è la produzione. Più difficile la situazione dei piloti le cui perdite sono più difficilmente ripianabili”.

Poi cominciarono ad arrivare in Italia le notizie dei morti, dei feriti, dei mutilati, dei congelati, dei prigionieri, pochi, e dei dispersi, molti, e quando a Milano, Torino, Bologna, Verona, Brescia si videro i Carabinieri Reali portare le buste di colore rosso che contenevano la lettera stringata nelle parole con la terribile notizia della morte avvenuta al fronte, si tornò a vivere la cupa angoscia dell’ autunno del 1917, l’epoca della tragedia di Caporetto. Nel Mediterraneo gli inglesi colavano a picco il nostri sommergibili, distruggevano i convogli diretti al fronte libico che, malamente scortati per la cronica mancanza di carburante, erano bersaglio delle navi e degli aeri inglesi decollati dalle portaerei che incrociavano indisturbate a sud della Sicilia.

E’ giovedì 31 ottobre quando nella pagina “Cronaca di Trento”, il giornale “Il Brennero” annuncia la morte del Principe Arcivescovo Celestino Endrici riportando il testo del manifesto fatto esporre dal Municipio dove si legge: “Si è spento con lui un faro di fede luminosa ed un patriota integerrimo, che la sua vita intemerata due soli simboli aveva: la Croce di Cristo e il Tricolore d’Italia”. I gerarchi trentini resero omaggio alla salma deposta in una bara di vetro. Cordoglio certo, ma di facciata. Perché monsignor Endrici non era, di certo, simpatizzante del fascio. Si dà spazio all’oscuramento che nel Trentino dovrà iniziare alle 19.30. Saranno quelli dell’Unpa (Unione nazionale protezione civile) a sorvegliare che dalle finestre non filtrasse un filo di luce richiamando, nel caso di un oscuramento poco efficace, con il grido “luce luce” l’inquilino trasgressore per ottenere l’immancabile risposta di “duce duce” seguita da un versaccio. Come si legge in un articolo del giornale che stigmatizza il “verso irreverente” che però cominciava a segnare la fine dell’idillio fra trentini e fascismo. E c’erano le esercitazioni con le maschere antigas che puzzavano di gomma marcia, toglievano il respiro, serravano il viso in una morsa e dopo pochi minuti facevano vomitare. Nulla di fronte a quanto accadrà dopo il 2 settembre del 1943, il giorno del bombardamento della Portela nella disperazione dei rifugi.

Ma ecco le altre prime pagine de “Il Brennero”. Venerdì 1 novembre; “Le truppe italiane avanzano nell’ Epiro”. Ciano che si è trasferito sul fronte greco, annota nel suo diario: “Finalmente il sole. Ne approfitto per fare su Salonicco un bombardamento coi fiocchi. Al ritorno sono attaccato dalla caccia greca. Ma confesso, era la prima volta che avevo la caccia in coda: è una gran brutta sensazione”. La guerra si scatena nei cieli e sabato 2 novembre il titolo del “Brennero” racconta che 17 velivoli inglesi sono stati abbattuti in Africa Settentrionale mentre nell’ Africa centrale hanno bombardato Adi Galla. Il giornale accenna al bombardamento di Napoli con bombe che hanno colpito Bagnoli, Porta Capuana e Pomigliano d’Arco. “Danni lievi” si legge sulle pagine del quotidiano. Invece i danni furono ingenti. Era l’inizio di Novembre: la guerra del Duce stava prendendo una brutta piega.

(15. Continua)  

 

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