Caso Moro, quando Boato scrisse a Curcio

Caso Moro, quando Boato scrisse a Curcio

di Luigi Sardi

A Torino, nell’aula della caserma Lamarmora, il processo alle Brigate Rosse arrancava fra formalità procedurali, interferenze del potere esecutivo nei confronti di quello giudiziario, scontri verbali fra il presidente della corte Guido Barbato culminati nel battibecco che aveva opposto il pubblico ministero Luigi Moschella a Renato Curcio.

Gridò Moschella: «Siete una banda di…», e gli rispose Curcio con quel minaccioso «sì, una banda che ha in mano Moro, che processerà la Democrazia Cristiana e tutta la classe politica italiana».

Urla nell’aula di Torino, silenzioso lavoro a Trento dove si cercava una via per salvare il presidente rapito. Ecco nel ricordo di Marco Boato, poi divenuto importante personaggio della politica nazionale, l’incontro con Bruno Kessler all’epoca ai vertici del Trentino, moroteo e amico di Moro. Avvenne a Gocciadoro, nella casa di Kessler. Boato ricordava sulle colonne de l’Adige di giovedì 13 marzo 2008 (pagina 11) che «fu un colloquio lungo e drammatico, in cui Kessler mi chiedeva cosa si potesse fare. Manifestando piena solidarietà per la vicenda, consigliai a Kessler di prendere contatto con gli avvocati dei brigatisti» che venivano processati a Torino, soprattutto con Curcio che dagli anni di sociologia conosceva molto bene Kessler, «per cercare una via di comunicazione con i carcerieri di Moro».

In verità nessuno dei capi storici delle Br da tempo detenuti, poteva essere in contatto con la «colonna romana» che aveva scatenato la strage in via Fani; Curcio aveva gridato quel «lo abbiamo noi», ma era evidente – salvo clamorose e grossolane falle nella custodia carceraria che cinturava i brigatisti in galera – che gli assassini non avevano potuto avere contatti con i detenuti. In via Fani avevano agito da soli; non c’era di mezzo il Kgb anche se era conosciuta la contrarietà sovietica all’Eurocomunismo berlingueriano, né la Cia data l’altrettanto nota ostilità americana all’ingresso di un partito comunista nel governo di un paese della Nato.

Neppure lo zampino del Mossad che aveva i suoi uomini in Italia, soprattutto a Roma, pronti ad ammazzare gli eterni nemici arabi. Israele non vedeva di buon occhio Moro che aveva «aiutato» il mondo palestinese anche per tener lontano il terrorismo dall’Italia, ma il Mossad od altre formazioni segrete che, forse, sorvegliavano il capitolo brigatista, mai misero le mani nella storia di via Fani. Certo, faceva comodo allungare ombre misteriose e inquietanti su un capitolo così tragico, visto gli insuccessi delle indagini. Del resto i rapitori di Moro non avevano mai avuto contatti con la malavita – ladri capaci di procurare veicoli rubati e restituiti «puliti», falsari pronti a fornire documenti perfetti, prostitute e via elencando i protagonisti del mondo della mala.

Le Br, almeno in quell’epoca, non avevano contatti con la malavita comune dove gli investigatori pescavano notizie anche molto importanti.

Kessler si mosse e fece contattare gli avvocati dei brigatisti; Marco Boato tentò con una lettera a Curcio: «Ottenni dal giudice di Torino dove mi ero recato per testimoniare sulle Br, il permesso di consegnare la lettera a Curcio» che esordiva con la frase: «In nome di un’antica amicizia interrotta ma mai rinnegata…».

Ma Curcio non rispose; a pensarci bene non poteva né rispondere né intervenire e aggiunge Boato: «Qualche settimana dopo un imputato e piede libero, Italo Saugo, mi raccontò che parlando con Curcio attraverso le sbarre in una delle pause delle udienze, mi invitò a non rivolgermi a lui perché lo avrei messo in difficoltà con il gruppo dei brigatisti detenuti».

La via del dialogo si era interrotta nell’attimo stesso della proposta arrivata da Trento. Boato e Kessler avevano capito che la via del dialogo era definitivamente perduta, che Curcio non avrebbe mai potuto parlare «e questo», scrisse Boato, «in qualche modo lo capivo. Ma a sconvolgermi fu la frase pazzesca che Curcio disse in aula a proposto dell’omicidio di Moro», commesso il 9 maggio, «parlandone come del più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi. Fu una frase terribile, disgustosa umanamente e politicamente, frutto di un delirio ideologico».

Ma ben prima della frase di Curcio il delirio ideologico incombeva, truce e atroce, in quei giorni di dolore e d’angoscia dove c’ erano due date, anzi due ricorrenze significative: il 18 e il 25 aprile. La prima richiamava quella giornata del 1948 che aveva visto la vittoria della Democrazia Cristiana di Alcide Degasperi sul Partito Comunista di Palmiro Togliatti e il 25 aprile commemorava la Resistenza che quelli delle Br credevano d’avere nel Dna. Le Br le avrebbero «onorate» con un’altra strage, un altro rapimento, con l’uccisione del presidente?

I due anniversari non cadevano in giornate serene, turbavano le sanguinose minacce alla Repubblica; si constatava con amarezza che la democrazia non era né stabile né sicura e che, nella «Repubblica tumultuaria» le tensioni e i conflitti erano vistosi e ci si domandava se si era sulla soglia di stravolgimenti epocali. Che, fortunatamente, non ci furono.

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