Le responsabilità della sconfitta

Le responsabilità della sconfitta

di Lorenzo Dellai

Egregio Direttore, nel Suo editoriale, ieri, ha proposto un'analisi severa sulle responsabilità della sconfitta elettorale di domenica. Curiosamente, ma non troppo, una parte rilevante della reprimenda era rivolta al sottoscritto. Ora, risulta del tutto evidente che, di fronte ad un risultato così, nessuno - e non solo tra i politici - può sentirsi esente da responsabilità e da colpe. Se, nel volgere di pochissimi anni, il Trentino ha subito una trasformazione così radicale significa che si sono messi in moto processi profondi, non capiti o sottovalutati oppure ancora, invece, cavalcati col pensiero insano di dominarli.
A me hanno però sempre insegnato che la responsabilità è proporzionata al potere ed al ruolo che ciascuno esercita. Per quanto mi riguarda, è dalla fine del 2012 che - lasciando dopo quattordici anni la Presidenza della Provincia - ho lasciato anche ovviamente il mio ruolo di leader della coalizione.

Non ci possono essere due Papi sullo stesso soglio, come è naturale. Del resto, legittimamente, da allora in poi la parola d'ordine mi pare sia stata «discontinuità».
Sempre da quella data, per quanto riguarda il mio partito, è iniziata una stagione nuova, affidata alla responsabilità del Gruppo Consiliare Provinciale, il quale - prima con la segreteria di Donatella Conzatti e poi con quella di Tiziano Mellarini - ha sostanzialmente gestito in presa diretta la vita interna e la linea politica dell'Upt. Al Congresso di gennaio 2016 ho provato a lanciare un allarme sia sulla tenuta della coalizione che sul partito; ma sappiamo come è andata a finire. Non è mio costume citare i miei interventi, ma rileggendo quella vicenda e le cose che ho detto in tale occasione, non posso non riscontrare riflessioni e valutazioni preoccupate che poi hanno purtroppo trovato drammatica conferma nel voto di domenica scorsa.
Ciò significa che mi posso sentire senza responsabilità alcuna? Neanche per sogno. 

Avverto anche su di me il peso di una sconfitta che è molto più di un passo falso elettorale: è il cedimento strutturale di un disegno che non era solamente «politico» ma anche culturale, sociale ed istituzionale.
Potevo fare molto di più per radicare questo disegno anche dopo il 2012; potevo essere più attivo nel mantenere viva una rete di pensiero e di presenze che si è via via rinsecchita; potevo essere più capace di avvertire ciò che stava accadendo. Potevo anche investire di più su una «nuova» classe dirigente che avrebbe dovuto inventare nuovi percorsi e innovare così il solco che avevamo tracciato. Potevo infine - anche prima del 2012 - avere più consapevolezza di un fatto che oggi appare evidente (e che qualcuno, come ad esempio Michele Nardelli, ci esortava da tempo a valutare): la cosiddetta «anomalia trentina» non poteva basarsi solo sugli schemi politici pur vincenti (allora, almeno) e sulla azione di Governo. Richiedeva un forte progetto sociale e culturale. Che - in nuce - avevamo abbozzato e perseguito, ma che evidentemente non abbiamo alimentato e coltivato a sufficienza. Tutto questo è vero e lo riconosco. 

Ma, in tutta franchezza, mi pare molto curioso se non paradossale che si tenti di rintracciare nel sottoscritto uno dei capri espiatori di questo naufragio. E ancora più paradossale e inaccettabile mi sembra che questa tentazione sia manifestata da alcuni degli esponenti che dal 2012 in poi hanno avuto l'onore e l'onere di guidare il Trentino in prima persona.
Il punto vero a mio parere è che si sono indeboliti gli «anticorpi» trentini rispetto alle dinamiche nazionali e questo ci ha esposti quasi senza difese al vento sovranista che sta tirando forte in Italia e non solo.
È inutile che si ricerchi la causa della sconfitta nelle divisioni che - purtroppo - hanno connotato la ex maggioranza di centro sinistra autonomista in questa tornata elettorale.
Certo che è stato un errore, dovuto - anche qui - alla responsabilità di tutti ma in modo particolare a chi non ha saputo gestire una fase così delicata e a chi ha voluto imporre una soluzione di continuità «senza se e senza ma». Ma anche la banale valutazione matematica dell'esito elettorale ci dice che ciò non è stato il vero fattore determinante della sconfitta. 

La divisione è stata semmai la conseguenza, piuttosto che la causa, della crisi della coalizione e di un progetto che prima c'era e poi è stato smarrito.
Lei, Direttore, cita anche - a carico mio e di Vittorio Fravezzi - la responsabilità di aver suggerito nell'Upt una «linea politica suicida». Immagino si riferisca alla votazione a maggioranza (pur se in un Parlamentino eletto in un Congresso dal quale ci eravamo ritirati) con la quale si è deciso di ratificare l'accordo sottoscritto dalla delegazione del partito a sostegno di Giorgio Tonini. Voglio ricordare a Lei e ai lettori che la nostra delegazione aveva unanimemente provato fino all'ultimo momento utile a costruire una coalizione «ampia», sia in direzione del Patt che dei vari movimenti civici che, in un primo momento, sembrava potessero riconoscersi in Carlo Daldoss. Io stesso mi ero permesso di sostenere questa strada, come forse ricorda, anche dalle colonne del Suo giornale. 

E per questo, del resto, pur essendoci nel nostro Partito opinioni anche diverse al riguardo, non si era mai posta una questione pregiudiziale sul nome del candidato Presidente.
Ma dopo il naufragio di tutte le altre ipotesi avanzate, a pochi giorni dalla presentazione delle liste, cosa avremmo dovuto fare? Buttare alle ortiche anche l'Alleanza tra Pd, Upt e Futura 2018 e con essa il minimo profilo di una coerenza politica? Dovevamo fare tutti come chi, anche tra i nostri, è andato in soccorso al vincitore prima ancora che avesse vinto? Oppure ritirarci sull'Aventino e poi fare come chi oggi, dopo averlo guidato fino a pochi mesi ora sono, fa capire di non aver neppure sostenuto il suo «ex» partito? Oppure ancora proporre un nostro candidato in solitudine, l'ennesimo? Invece, pur sapendo che sarebbe stata molto dura, abbiamo tenuto la bandiera, portata soprattutto da molti giovani candidati e candidate che sono la vera speranza che la nostra cultura politica possa tornare a dare il suo contributo alla comunità.
Infine, mi consenta di rassicurare Lei (e anche qualcun altro) circa l'auspicio reiterato che il sottoscritto si levi di torno. Già fatto, da qualche tempo. Ho detto e ribadisco che l'unica mia futura ambizione è quella di dare una mano alla formazione di una nuova classe dirigente che sappia trovare, con il suo linguaggio e con le sue idee, la forza e il coraggio di ripartire.
Un ciclo politico è finito. Il prossimo - quanto alla nostra parte - non potrà che nascere da nuovi protagonisti. E dal rilancio civile, culturale e sociale della nostra «Comunità Autonoma».

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