Pd all'anno zero Il partito è da rifare

Stupirsi della vittoria di Grillo, come ha fatto l'establishment del Pd, comprova l'estraneità dal mondo di una dirigenza che «vive in una bolla», come ripete Crozza, dissociata dalla realtà. In effetti, come può aspirare a guidare l'Italia un partito che in vent'anni, ha sempre perso al Nord, incapace di capire e intercettare i voti non solo dei ceti più produttivi del Lombardo-Veneto, ma di tutte le aree a forte iniziativa imprenditoriale e produttiva del Paese? Un partito che non si è mai posto la questione dell'eccessivo carico fiscale oggi vigente nel nostro paese, della burocrazia asfissiante, dell'incapacità di modernizzazione delle relazioni industriali di cui spesso il sindacato di riferimento è stato l'interprete primo.

di Pierangelo Giovanetti

La sconfitta annunciata del Partito democratico (il vero perdente di queste elezioni, insieme alla lista Monti) ha parecchie cause e mette in luce mali profondi della sinistra italiana, che la nascita del Pd non ha risolto ma solo accantonato.

 

Proprio il radicamento delle ragioni che stanno alla base dell'ennesimo fallimento, e la gravità di tale sconfitta che peserà a lungo sulla sinistra e sul Paese per le conseguenze di ingovernabilità che porterà con sé, richiederanno per il Pd un risoluto cambio di rotta, non soltanto di rottamazione totale del gruppo dirigente attuale, capace solo di perdere, ma soprattutto di svolta culturale, che archivi una volta per tutte la presunzione di superiorità morale della sinistra e di autosufficienza politica dei suoi «valori» e del suo ceto dirigente, che hanno impedito anche stavolta di ascoltare e capire il Paese, chiusi nella propria autoreferenzialità.

 

Non sarà operazione semplice, né di breve durata. E i pochi mesi di sopravvivenza della nuova legislatura, nata morta, rischiano di non bastare per prepararsi adeguatamente prima delle elezioni anticipate. Né da solo Matteo Renzi, ora invocato da molti nella base come il salvatore della patria dopo che i vari d'Alema, Bindi, Fassina hanno fatto di tutto per farlo fuori perché minacciava la loro immobilità, da solo non sarà in grado di portare a vittoria il centrosinistra senza una definitiva archiviazione di tutte le bandiere e gli stereotipi ideologici degli anni '70 che ancora dominano il gruppo dirigente.

 

Del resto, si era visto ampiamente ai tempi delle primarie come una certa «cultura comunista» continuasse a permeare la nomenklatura, con la demonizzazione del giovane sindaco di Firenze perché capace di parlare agli elettori non di sinistra, e l'esclusione dei cittadini dai seggi se non davano prova di purezza ideologica.

 

Emblematiche le file di votanti non ammessi, o le regole cambiate più volte anche dopo il primo voto per paura che il candidato dell'establishment non uscisse vincitore). Ma anche l'invenzione dell'alleanza frettolosa e posticcia con i socialisti (zero voti) e con Vendola (la minoranza del 3% della sinistra «pura e dura») pur di fermare il «ragazzino» come ironicamente veniva chiamato in via del Nazareno, anche se questo avrebbe comportato la sconfitta alle elezioni vere, le politiche, come di fatto è avvenuto.

 

La stessa cultura di estraniazione dalla vita reale e dalla concretezza del Paese (quello vero, non quello tratteggiato nei collettivi o immaginato a tavolino), che ha impedito al Pd nell'anno a disposizione mentre il governo tecnico tamponava l'emergenza finanziaria di fare le riforme che tutti si attendevano. A cominciare dagli elettori del centrosinistra. Prima fra tutte la riforma elettorale, la cancellazione del Porcellum, che il Pd non ha voluto fare perché convinto di lucrarne i vantaggi e di conquistare artificialmente grazie a una «porcata» la maggioranza del Parlamento che sapeva di non avere nel Paese. È tale supponenza che ha portato a rifiutare la riforma (il patetico «Non ci vogliono lasciar vincere») quando il Pdl ha offerto un patto istituzionale vantaggioso: una legge elettorale alla francese in cambio del presidenzialismo.

 

Il Pd ha rifiutato. Non solo perché sicuro di vincere da solo, come ha strombazzato per mesi, in quanto il campo era vuoto e l'avversario infortunato. Ma anche perché il doppio turno alla francese avrebbe costretto a porre la questione delle alleanze, di programmi comuni con altri oltre alla sinistra, costringendo ad uscire dai confini asfittici e autogratificanti dei propri slogan e della propria presunta e spocchiosa convinzione di essere l'«Italia giusta».

 

Inoltre la riforma elettorale avrebbe costretto ad un'apertura mentale capace di introdurre in Italia, insieme ai contrappesi dei collegi a doppio turno, il presidenzialismo come è in molte delle democrazie occidentali. Il conservatorismo dominante nel Pd, frutto dei residuati delle culture comuniste e democristiane transitate nel partito nella fusione a freddo fra i profughi - spesso di serie B e C - dei due gruppi dirigenti, ha impedito di pensare qualunque innovazione istituzionale per il Paese. E insieme al Porcellum, il Partito democratico ha voluto tenersi strette le province (ogni tentativo di riforma ha avuto il voto contrario del Pd, perché portatore degli interessi di molte delle presidenze e delle poltrone coinvolte nella soppressione), l'altissimo numero dei parlamentari, le due camere inutilmente uguali, i rimborsi elettorali, gli esosi vitalizi, l'intreccio banche e politica, i fondi per i gruppi consiliari, le nomine partitiche nelle società pubbliche. Senza dimenticare la legge sul conflitto d'interessi, mai fatta dal Pds-Ds-Pd, così simbolica di fronte ai propri elettori.


Stupirsi della vittoria di Grillo, come ha fatto l'establishment del Pd, comprova l'estraneità dal mondo di una dirigenza che «vive in una bolla», come ripete Crozza, dissociata dalla realtà. In effetti, come può aspirare a guidare l'Italia un partito che in vent'anni, ha sempre perso al Nord, incapace di capire e intercettare i voti non solo dei ceti più produttivi del Lombardo-Veneto, ma di tutte le aree a forte iniziativa imprenditoriale e produttiva del Paese? Un partito che non si è mai posto la questione dell'eccessivo carico fiscale oggi vigente nel nostro paese, della burocrazia asfissiante, dell'incapacità di modernizzazione delle relazioni industriali di cui spesso il sindacato di riferimento è stato l'interprete primo.

 

Un partito che, di fronte alla fine del fordismo e della lotta di classe dopo lo tsunami della globalizzazione e dell'innovazione tecnologica che impone flessibilità per accrescere produttività, si rinchiude nel perimetro del blocco sociale della Cgil, del lavoro dipendente, del pubblico impiego, dell'articolo 18 come tabù invalicabile, perdendo di vista anche qui la realtà, e la complessità dell'oggi. Del resto la partecipazione attiva nella campagna elettorale di Susanna Camusso a fianco di Bersani, con la promessa di un piano lavoro che prevedeva 175mila assunzioni di pubblici dipendenti per un aggravio di spesa dello Stato di 10 miliardi di euro, la dice lunga su chi deteneva la golden share su Bersani e sulle prospettive che può avere nel 2013 un siffatto partito.

 

L'immobilità di un partito inabile al cambiamento che con orgoglio rivendica il suo essere sopravvivenza del vecchio della Prima e della Seconda Repubblica (il famoso «usato sicuro» di Bersani) è stata colta appieno da chi un tempo era il bacino di riferimento della sinistra e del Pci: il mondo operaio. I dati elettorali sono impietosi: da Mirafiori a Porto Marghera, dall'Ilva di Taranto al Sulcis, ai quartieri industriali di Milano, Genova, Termini Imerese il primo partito è Grillo, non certo il Pd, avvertito come difensore delle rendite e degli interessi costituiti. Come il primo partito dei giovani è Grillo, non certo il Pd.

 

Non stupisce, quindi, se il Partito democratico con questa sua «vocazione minoritaria» domenica scorsa ha perso 3 milioni e mezzo di voti rispetto ai consensi raccolti da Walter Veltroni, quando fu sconfitto da Silvio Berlusconi nel 2008. Non solo ha disperso per strada i voti di chi sperava in segnali e gesti concreti di cambiamento, ma non ha guadagnato nemmeno i meriti per aver sostenuto un governo di emergenza nazionale che ha salvato l'Italia dalla bancarotta. Infatti, fin da subito, ossessionato dal chiudersi nel fortino cinturato della sinistra e dei suoi riti, tra cui quello massimo di cercare consensi alla propria sinistra, quando il grosso del Paese è dall'altra, il Pd ha fatto una campagna elettorale delegittimando se stesso come pilastro del governo Monti e dei risultati (pochi o tanti che siano) da questo portati a casa. In sostanza ha sparato contro tutto quello che aveva votato e sostenuto nell'ultimo anno, lasciando facile gioco a Grillo per ironizzare sulla sua stolta doppiezza.

 

Non sarà facile per Matteo Renzi realizzare un processo di rinnovamento così radicale in un partito destinato altrimenti a perdere per altri vent'anni. Richiederà sicuramente un azzeramento dell'attuale apparato dirigente, cresciuto a dismisura dopo le primarie, compresi i «Giovani Turchi» che nelle candidature hanno scientificamente eliminato tutte le voci contrarie e non allineate. Richiederà una nuova «narrazione» politica, una capacità di andare a parlare a mondi nuovi, un'apertura al cambiamento non pretendendo che siano gli italiani ad andare a sinistra, ma la sinistra ad andare incontro agli italiani, alle loro richieste, alle loro domande anche quando chiedono di rottamare alcuni slogan e tabù della sinistra, spacciati per valori per autogratificarsi nella propria asserita «diversità morale».

 

Sarà una lunga attraversata del deserto per il Partito democratico, ma se non sarà capace di portarla a compimento non ci sarà più futuro per il Pd nel nostro Paese. E non sarà un bene, come il caos attuale ampiamente dimostra.

 

p.giovanetti@ladige.it
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