La protesta non basta, serve costruire il dopo

di Pierangelo Giovanetti

 D i campagne elettorali pessime ne abbiamo viste tante negli ultimi vent'anni. Ma così vuote e di basso livello, infarcite solo di insulti e di mirabolanti quanto immantenibili promesse come stavolta, non se n'era ancora sperimentate. E questo dopo una legislatura che è stata fra le più disastrose dell'Italia repubblicana, con il Paese arrivato sull'orlo della bancarotta, il discredito totale della classe politica che ha governato nell'ultimo decennio e una crisi che è forse la più devastante dopo quella del 1929.
Di problemi concreti da discutere nel Paese ce ne sarebbero a bizzeffe. Soprattutto per spiegare agli italiani come si intende promuovere nei fatti la crescita economica, a cui sono legati il lavoro e gli stipendi di tutti, ma soprattutto dei giovani.
E dove si dovrà tagliare la spesa pubblica, se vogliamo abbassare le tasse come tutti promettono, premessa indispensabile per ridare fiato ai bilanci delle famiglie.
La rabbia dei cittadini è forte ed è estesa, a tutti i livelli sociali.
In buona parte è anche motivata di fronte a tale stomachevole spettacolo, ma soprattutto al fallimento della classe politica che in questi anni non ha governato, cioè non ha preso decisioni per invertire la rotta del declino del Paese.
Una classe politica che quando ha governato ha malgovernato, e non ha saputo avviare nessuna delle riforme fondamentali e strutturali che potevano risollevare il Paese. Una classe politica litigiosa e autoreferenziale che non è stata in grado nemmeno di riformare se stessa, come s'è visto nel taglio dei privilegi di casta e dei costi della politica.
La protesta è quindi il primo sentimento che serpeggia fra gli elettori, e minaccia un astensionismo di massa al voto, fa prefigurare la volontà di punire i partiti premiando chi promette di sfasciare tutto, di far saltare il tavolo, di mandare tutti a casa.
Il sentimento è comprensibile, e in buona parte anche condivisibile. È lo sfogo di fronte a una classe politica che invece dei problemi della gente per tutto il tempo si è occupata di «olgettine», dei propri interessi patrimoniali, giudiziari e bancari, e dei miliardi di rimborsi elettorali. È la reazione delle viscere, che viene prima del pensiero. Che pensa a «punire», ma non a quanto succederà dopo, e cioè a «ricostruire». A far ripartire il Paese, perché non ricada nel caos e nel ciclone della speculazione internazionale di fronte a un'Italia senza più una guida.
È questo oggi il rischio maggiore di fronte alle elezioni del 24 febbraio: l'ingovernabilità del Paese. Il trovarsi in un Parlamento in cui la maggioranza è fatta dalle minoranze di protesta, dai contestatori anti-sistema, dalle formazioni «contro»: contro l'Europa, contro la Merkel, contro le istituzioni, contro gli impegni presi. Ma anche contro i giudici, il presidente della Repubblica, il parlamento stesso quale espressione democratica.
I partiti anti-sistema, a destra come a sinistra, movimentisti o giustizialisti, autoritari o padronali, che sventolano la bandiera dell'odio antieuropeo e antitedesco per coprire l'inconsistenza della propria proposta politica, hanno superato un livello fisiologico e minacciano la possibilità di esprimere un governo dopo le elezioni. Con una paralisi politico-istituzionale che non potrà che portare a un nuovo scioglimento delle Camere e a una chiamata di nuovo al voto. Mentre l'Italia continuerà a sprofondare inesorabilmente nelle sabbie mobili.
Oggi il problema numero uno del Paese è la mancanza di una classe dirigente, e in particolar modo di una classe politica, capace di assumersi l'impegno di governare. Cioè di prendere decisioni, anche impopolari, di lungo respiro per il bene complessivo della popolazione, specialmente dei giovani e delle fasce meno garantite.
La protesta è la febbre che ci indica la malattia, non è la medicina. E con la sola protesta l'Italia non sarà in grado dopo il voto di porre le basi di una «ricostruzione nazionale», come è stato dopo la fine della guerra. Perché noi oggi è come fossimo seduti sulle macerie di una guerra, dopo un ventennio di dissipazione e malgoverno, con un debito pubblico che è quello di una nazione travolta da un conflitto armato e totalmente da ricostruire.
Se la protesta non basta e non risolve i problemi, nemmeno la mera rappresentanza di interessi costituiti - come sono stati per lo più i partiti fino ad oggi - basta da sola ad affrontare i problemi del Paese. Insieme alla «mancanza di governo» e alla «vulnerabilità delle leadership», ciò che ha impedito ogni seria politica riformista è stata la «vetocrazia» in cui è degenerata la democrazia italiana.
Non solo non abbiamo avuto in vent'anni una classe politica capace di governare perché preoccupata soltanto di galleggiare, affidandosi ai sondaggi così da non scontentare nessuno e farsi tranquillamente i propri interessi.
Ma è mancata totalmente una «cultura di governo», che è la capacità si sottrarsi ai veti particolaristici, agli interessi corporativi, ai propri stessi bacini elettorali di riferimento, per un disegno più alto che abbia a cuore la generazione futura e non l'immediata scadenza elettorale.
Quello che è mancato è un'«efficace» classe di governo, in grado di dar vita non a governi raffazzonati di breve durata o di scarso motore propulsivo, ma a governi «di legislatura» (o di più legislature) disposti  a porre in atto processi di trasformazione profonda del Paese, che ne rimettano in circolo le energie migliori, schiacciate dal peso della conservazione e delle rendite di posizione.
Le elezioni a fine mese sono un'occasione storica per l'Italia, l'ultimo treno per poter ripartire. Affidarsi alla sola, pur legittima rabbia, e alla mera contestazione, dà soddisfazione al momento, ma non dà garanzie sul dopo. Ed è il dopo che invece dobbiamo costruire.
p.giovanetti@ladige.it
Twitter @direttoreladige

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