La posta in gioco nel voto di febbraio

Non è solo «il ritorno della mummia» come ha titolato a tutta pagina il francese Liberation, o «di nuovo bunga bunga» come ha scritto la tedesca Bild Zeitung, a preoccupare. E nemmeno la convinzione che Silvio Berlusconi «sia il simbolo della politica marcia», come ha vergato il Financial Times, e «il peggiore ciarlatano del dopoguerra», come ha ripetuto il Tagespiegel, ad inquietare le cancellerie europee. È la paura che l'Italia torni come un anno fa, un Paese inaffidabile, incapace di mantener fede alle riforme avviate dal governo Monti, prigioniero degli interessi personali ed elettorali di chi governa, fanfarone e qualunquista, pronto a fregare il prossimo, a non mantenere la parola data

di Pierangelo Giovanetti

Le reazioni dei mercati, dell'Europa, dei giornali più importanti nel mondo alla caduta del governo Monti e al ritorno sulla scena di Silvio Berlusconi hanno confermato quanto già si sapeva: senza una decisa e autorevole agenda europea l'Italia resta un Paese a rischio. Pericolosa per sé e per l'intero continente.

 

Non è solo «il ritorno della mummia» come ha titolato a tutta pagina il francese Liberation, o «di nuovo bunga bunga» come ha scritto la tedesca Bild Zeitung, a preoccupare. E nemmeno la convinzione che Silvio Berlusconi «sia il simbolo della politica marcia», come ha vergato il Financial Times, e «il peggiore ciarlatano del dopoguerra», come ha ripetuto il Tagespiegel, ad inquietare le cancellerie europee.


È la paura che l'Italia torni come un anno fa, un Paese inaffidabile, incapace di mantener fede alle riforme avviate dal governo Monti, prigioniero degli interessi personali ed elettorali di chi governa, fanfarone e qualunquista, pronto a fregare il prossimo, a non mantenere la parola data, a dire una cosa e a farne un'altra, a inveire contro Bruxelles e l'euro per nascondere la propria inettitudine nel saper governare e riformare l'Italia in profondità. Insomma, a fare quanto ha sempre fatto Silvio Berlusconi, e molti dei governi degli ultimi trent'anni, in particolare quelli del centrodestra con la Lega ma anche quelli condizionati dal populismo dell'estrema sinistra.


È per questo che ieri, come era ampiamente prevedibile, lo spread è schizzato verso l'alto, la borsa italiana è sprofondata (tranne il titolo Mediaset che, ovviamente, ha guadagnato), si è sparso il timore...È per questo che ieri, come era ampiamente prevedibile, lo spread è schizzato verso l'alto, la borsa italiana è sprofondata (tranne il titolo Mediaset che, ovviamente, ha guadagnato), si è sparso nuovamente il timore del contagio e le autorità europee da Van Rompuy a Barroso hanno indirizzato un immediato richiamo all'Italia a non indietreggiare di un passo dalla rigorosa politica di risanamento dei conti e di cambiamento strutturale del Paese avviata nell'ultimo anno da Mario Monti e dal suo governo. Perché questo non solo ha restituito la fiducia anche degli investitori verso l'Italia (ricordiamoci che un anno fa era a rischio il pagamento delle pensioni e degli stipendi degli statali, e i risparmi degli italiani stavano per andare in fumo per bancarotta dello Stato); ma ha salvato l'euro dal rischio tracollo, portando stabilità nell'eurozona e contribuendo in maniera determinante a rafforzare il ruolo della Bce e a varare gli interventi salva-stati.


Purtroppo (o per fortuna) quanto avviene in Italia, se cade un governo capace e autorevole o se invece torna un vecchio avventuriero che ha portato il Paese alla catastrofe, non è più una questione che ricade solo ed esclusivamente sugli italiani, vittime dell'irresponsabilità dei propri governanti. Ora ricade sull'intera Europa, perché noi siamo parte piena dell'Europa, siamo uniti dalla stessa moneta e dagli stessi destini, ne subiamo gli stessi attacchi speculativi e ne beneficiamo degli stessi effetti positivi quando calano i tassi e il costo del denaro. Fare quel che vogliamo, anche distruggere noi stessi (o il futuro dei nostri figli) come abbiamo fatto allegramente negli ultimi trent'anni, ora non ci è più consentito. Perché il danno non lo facciamo solo a noi, ma all'Europa intera. Ed è l'Europa che non ce lo consente più, richiamandoci alle nostre responsabilità.


Troppo a lungo come italiani ci eravano abituati a «fare i furbi», non rispettando i bilanci e scaricando sulle casse pubbliche la nostra «dolce vita», non portando a termine i compiti assegnati e giocando a svalutare la lira o a gonfiare l'inflazione per camuffare la nostra impreparazione ad affrontare strutturalmente i problemi. Fin che questo avveniva, potevano permetterci anche politici arraffoni, inconcludenti, populisti, vergognosamente indaffarati solo a fare i propri interessi, anche giudiziari e patrimoniali, come l'intera disastrosa parabola berlusconiana insegna. Ora non più, perché l'alternativa non è fra galleggiare o tirare a campare, ma fra restare Europa, con tutto ciò che ne consegue, o divenire Africa.


Ecco perché le elezioni fra poche settimane, nel 2013, saranno epocali, come e più di quelle del 1948. Perché si tratterà di decidere se stare dalla parte dell'Europa o contro, se rimanere un grande Paese e una grande economia mondiale o sprofondare nel vuoto.
Su questo si voterà a febbraio. Non si tratterà più di scegliere fra due schieramenti, destra e sinistra. Non ci sarà più un referendum su chi sta con o contro Berlusconi. Sarà una conta su chi pensa che l'Europa sia la soluzione dei nostri problemi, e senza l'Europa non c'è Italia. E chi invece sparerà sull'Europa, non accorgendosi che in tal mondo affonderà l'Italia, perché il legame ormai è indissolubile.


Sarà una campagna elettorale incandescente, dai toni duri e dagli effetti devastanti, dove uscirà il peggio del populismo e del qualunquismo che è stato seminato in questi anni e che ha partorito il dissesto attuale. Sarà una campagna elettorale dove da una parte ci sarà chi sparerà quotidianamente sull'euro, sulla Merkel, sui «burocrati di Bruxelles» e sul rispetto degli impegni presi. Dall'altra chi invece crede che l'Italia non ha futuro se non in Europa, e solo in Europa può contare nel mondo.


Sarà una campagna elettorale che vedrà alleati gli estremismi e gli egoismi della destra illiberale e xenofoba, con gli estremismi della sinistra antisistema, movimentista e giustizialista. La destra dell'Italietta provinciale che pensa solo ai propri miseri tornaconti immediati, unita nello stesso linguaggio e negli stessi obiettivi della sinistra del «no», del «contro», degli slogan dei diritti senza l'impegno dei doveri. Dall'altra parte invece chi intende continuare l'agenda europeista di riforme e credibilità, che ha contraddistinto l'ultimo anno del governo Monti e che ha restituito dignità e ruolo ad una nazione che da tempo li aveva persi di fronte agli occhi del mondo.
È questa la posta in palio nel voto di febbraio. Sarà una partita decisiva. Soprattutto per le prossime generazioni.


p.giovanetti@ladige.it
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