Cinesi tra le cave di porfido Il boom, poi crisi e fuga

di Domenico Sartori

Scomparsi. Non si sa dove. C'è chi ha trovato lavoro fuori regione. Chi se n'è tornato in patria. Chi è rimasto in Trentino, riciclandosi e adattandosi a nuovi mestieri pur di mettere insieme pranzo e cena. Praticamente invisibili, in ogni caso. Numeri precisi, sui lavoratori cinesi nel settore del porfido non ne esistono.

Però Lu Xuemei una stima la fa: «Negli anni del boom, in Valsugana, sono arrivati ad essere anche 300. Oggi, se va bene, sono ridotti a meno di un terzo». Lu Xuemei è in Trentino da 25 anni, proveniente da Pechino. Dal 2006 lavora come mediatrice al Cinformi. Si occupa di ricongiungimenti, permessi di soggiorno, tessere sanitarie, aiuta a «leggere» buste paga e documenti. Consiglia e ascolta. «Da traduttrice» racconta «fui chiamata ad occuparmi del porfido nel 1999: era il caso di un lavoratore cinese, tra i primi ad arrivare nelle cave, non pagato da una ditta italiana».
L'ultimo anello della catena.

I lavoratori cinesi stanno alla fine della catena, una filiera che va dall'escavazione e dalla prima lavorazione alla posa. Una filiera che nessuno, in realtà, controlla a dovere, né le istituzioni né il sindacato, e che sconfina nell'illegalità del caporalato e del lavoro nero, delle minacce e del farsi giustizia da sé. La brutta storia ( ne riferiamo in pagina ) di Hu Xupai, vittima di un brutale pestaggio a sangue perché ha osato chiedere il dovuto, mensilità arretrate che non gli venivano pagate, è un caso estremo.

Ma se non si coglie il contesto in cui è maturato, non c'è garanzia che non possa ripetersi. In cima alla catena, c'è la ditta concessionaria: alcuni grossi imprenditori trentini che hanno in mano da decenni, senza gara, le concessioni estrattive.

Aziende che, dagli anni Novanta, hanno «scoperto» la prassi della esternalizzazione.

Walter Ferrari, del Coordinamento lavoro porfido che segue e tutela per quanto può la situazione dei lavoratori immigrati delle cave, studia da anni la situazione. Ferrari ha ben chiara in testa una data, il 1993, quando la magistratura interviene sulle trancette con maglio a caduta che fanno saltare le dita. Vengono messe sotto sequestro e devono esser sostituite. Quelle nuove, oleodinamiche, che riducono il rischio di infortuni e garantiscono un prodotto di maggiore qualità, rallentano però i ritmi del lavoro e riducono i profitti.

Alcune ditte concessionarie che hanno il monopolio del grezzo trasformano i propri operai in artigiani per la produzione di cubetti: le cosiddette «false partite iva». E interi segmenti produttivi vengono esternalizzati a ditte artigiane. I concessionari mantengono però il controllo della commercializzazione del prodotto finale e «fanno» il prezzo. Commenta Ferrari: «L'esternalizzazione ha consentito una forte compressione del costo del lavoro, scaricando sulle ditte artigiane (spesso costituite da avventurieri senza scrupoli italiani o extracomunitari) gli oneri relativi alla gestione della manodopora».
Il «modello» Borgo.
Ecco che spuntano come funghi imprese intestate a macedoni, marocchini, cinesi, a volte alle loro mogli. Non se ne parla, se non per un caso che finisce in cronaca e che Lu Xuemei ha ancora ben presente. Accade a Borgo, ad inizio dicembre 2006. Da un giorno all'altro, dodici cinesi vengono sbattuti sulla strada. Licenziati. Lavoravano in un capannone sull'area ex Samatec, assunti dalla ditta Jin Pan Schichang, con sede a Pergine, titolare Zu Zhikuang. Capannone e macchinari sono messi a disposizione (canone da oltre 9 mila euro al mese) dalla Porfidi La Ruota srl. Quest'ultima appartiene per il 51% alla famiglia Pasquazzo, per il 49% alla Sierra Invest srl di Albiano della famiglia Odorizzi (tra i soci, Tiziano, all'epoca consigliere provinciale della Margherita). Dalla «Ruota» Zu Zhikuang è obbligato ad acquistare il materiale grezzo, che a sua volta lo acquisisce dalle cave degli Odorizzi, e alla «Ruota» il cinese è obbligato a vendere il prodotto trasformato in cubetti. È la «filiera» di cui sopra, che «salta» quando la ditta madre contesta il prodotto e ritarda i pagamenti. Il cinese è costretto a chiudere la ditta e chi è senza lavoro ha davanti lo spettro del permesso di soggiorno da rinnovare: senza occupazione, nessuna speranza.
I più deboli tra tutti.
«Il 90% dei cinesi che hanno lavorato o lavorano nelle cave» spiega Lu Xuemei vengono da Zhejiang e Fujan, province del centro sud e del sud della Cina. Sono contadini poveri, spesso analfabeti o con una educazione scolastica solo elementare. Il loro problema più grosso è la lingua: anche dopo anni che sono in Italia, non parlano italiano. Anche per questo c'è stato un boom di presenze nel porfido. Per spaccare o posare cubetti, non serve conoscere l'italiano e i cinesi lavorano anche dodici ore al giorno, senza ferie e malattie». La barriera linguistica li pone in una condizione estrema di debolezza. «Se non conosci la linqua» esemplifica Ferrari «ti fanno firmare ciò che vogliono».
Dal 2010, l'impatto della crisi.
Dal 2010 i numeri «crollano», le richieste di aiuto al Cinformi si diradano. «Con la crisi, tanti se ne sono andati, perché non c'era lavoro o non venivano pagati. Sono pochissime, oggi, le richieste di ricongiungimenti».
Maltrattamenti e minacce.
Casi di maltrattamenti? «Nel 2010» ricorda Lu Xuemei «al Cinformi s'è presentato un cinese con evidenti lesioni al volto, sanguinava. Era stato picchiato ad Albiano. Vantava dei crediti di lavoro. Gli avevano anche distrutto l'auto. Con il legale del Cinformi gli consigliammo di fare denuncia ai carabinieri. È ritornato qualche giorno dopo per dirci che, siccome era stata denunciato anche lui, gli avevano consigliato di rimettere la querela. I cinesi sono così. Di solito stanno zitti, rinunciano anche a qualche mese di paga e al Tfr, pur di non avere problemi. C'è anche chi mi ha riferito di essere stato minacciato: "Stai attento, tu hai famiglia e bambini!"».

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