Si è spenta a 95 anni Nives Fedrigotti

In queste ultime settimane non stava bene. Chi l’ha vista assicura che comunque restituiva allo sguardo altrui quel volto luminoso che l’ha sempre contraddistinta.

E pure quando, nelle ultime ore, la diagnosi è peggiorata, non sembrava si fosse arrivati alla fine.

Invece si è spenta, nella notte tra venerdì e sabato, nella sua casa di via Setteville. Nives Fedrigotti se n’è andata a 95 anni. E con lei se ne va un pezzo della Rovereto che sapeva incantare, ma anche muovere un dibattito vivo, che non era ancora sterile polemica. Soprattutto, con lei se ne va un pezzo della sinistra cittadina, dell’ambientalismo e del femminismo, lontani dai cliché: quella era una città che amava ragionare, ma lo sapeva fare con eleganza, e pure con leggerezza, divertendosi.

Classe 1922, Nives Fedrigotti era cresciuta in epoca fascista, ma lei fascista non fu mai. Amava dire che «La resistenza è donna, la rivoluzione maschia». Di sicuro il tributo alla lotta per la liberazione la sua famiglia lo pagò caro. Il fratello Mario, nome di battaglia Topolino, fu assassinato a 18 anni in via Sicotta. Ma la sua, amava dire lei, è stata una vita di incontri. Impossibile citarli tutti. Certo uno dei più importanti, quello con Sandro Canestrini. Si  sposarono nel 1950, e fecero storia due volte: il loro fu il primo matrimonio laico della provincia e 22 anni dopo, quando ancora l’eco del referendum era forte, fu il primo divorzio di una terra che non è mai arrivata in anticipo, sui cambiamenti di costume.

Cinque anni dopo il sì in municipio, la prima figlia della coppia: Gloria, oggi noto avvocato, nata al Santa Maria del Carmine. La giovane famiglia Canestrini all’epoca viveva in via Rovigo, l’avvocato accompagnò la moglie a partorire in bicicletta. Un’altra epoca davvero. Dopo Gloria arrivarono Fausto e Duccio. E arrivò la casa in via Setteville. Più che un edificio, un punto di riferimento per tanti. «I Verdi in città nacquero in via Setteville», amava ricordare Nives. Ma quello accadde dopo, molto dopo.

Prima di tutto, a partire dai primi anni ‘60, ci fu l’impegno culturale. L’attività pubblicistica si è moltipliata, a Rovereto e non solo. Perché Nives Fedrigotti era figlia di questa terra, ma teneva lo sguardo verso orizzonti più ampi. Grazie alle frequentazioni - su tutte quella con Joyce Lussu - e alle recensioni che le veniva chiesto di scrivere. Erano gli anni in cui lei, il marito e altri roveretani, avevano messo in piedi «Cultura Viva». Impossibile citarli tutti. Da Franco Rella ad un giovanissimo Fabrizio Rasera, da Luigi Serravalli a Paolo Mirandola. Erano tutti giovani, di sinstra, amanti della cultura. E capaci di coniugarla con il divertimento. In quella Rovereto erano famose le loro trasferte, con un pullmino scassato, per assistere agli spettacoli di Strehler al Piccolo. Ma erano famosi soprattutto gli incontri organizzati nella città della Quercia: portarono all’ombra della campana gente del calibro di Giangiacomo Feltrinelli, Danilo Dolci, Jannacci. Un’associazione nata tra amici, e diventata movimento culturale, con una pagina dedicata su un quotidiano locale.

Ma se questo era il divertimento, l’impegno è partito dalla storiografia, con quel volume sulla storia del Trentino visto dal basso, da chi il potere non ce l’aveva. E il femminismo ante litteram. Parlava di femminismo quando ancora la definizione nemmeno esisteva. E l’ha fatto per tutta la vita - suo il nome «Cara città», per dirne una - ma senza pesantezza. Anzi, con un’ironia anche pungente. Si pensi al racconto sul marchese, per dirne una. O alle poesie sull’8 marzo.
Negli anni Ottanta all’impegno sul fronte delle recensioni si aggiunse quello come autrice. Poesie, brevi racconti, fino al romanzo breve «La gana». Un’attività che le diede ulteriore visibilità e che approdo all’insegnamento, con la sua scuola di scrittura creativa, messa in piedi sia a Rovereto che a Trento.

Dalla cultura alla società non ci fu un salto, fu il medesimo impegno declinato in altro modo: comunista, lasciò il partito nel ‘56 per abbracciare il movimento dei Verdi, per i quale fu anche consigliera comunale dal 1990.

E poi ci sono i viaggi. Fin dagli anni Settanta è andata dove allora era difficile approdare. L’Urss, la Cina, l’Albania. E ricordava fiera che «mi sono rifiutata di vedere la mummia di Lienin e pure quella di Mao». E poi ci sono i viaggi in Messico, in Africa, in India. Impossibile fermarla: a New Dehli un incidente stradale la fece finire in ospedale: 15 giorni dopo prese un aereo per il Nepal e solo poi tornò a casa.

Figura poliedrica, interessi numerosi, ma vissuti con due parole d’ordine: leggerezza ed eleganza. La stessa che aveva - fino alla fine - quando invitava gente in casa. Le amiche di Cara città, Rita Farinelli in testa, al suo compleanno, il 6 marzo scorso, sono andate a trovarla. Fisicamente era perfetta, come sempre. Ben vestita e ben pettinata. Tra loro è stato l’ultimo abbraccio.

Ora non c’è più. Verrà ricordata martedì alle 16 al cimitero di San Marco. Assieme alle sue poesie, ai suoi pensieri. Qui piace ricordare una frase rilasciato a L’Adige pochi anni fa, sulla morte: «Non escludo qualche forma di sopravvivenza alchemica, perché in natura nulla si crea e nulla si distrugge. Ma se sarò un atomo in terra, in acqua o in aria non lo saprò mai. E tanto mi basta».

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