La mafia è viva Uccidiamo la mafia

La mafia è da temere proprio quando non spara, diceva Leonardo Sciascia. Adesso non spara e adesso, più che mai, dobbiamo avere il coraggio e la forza per sconfiggerla. Ne è convinto Antonio Calabrò, autore de I mille morti di Palermo (251 pagine, Strade Blu, Mondandori). Sottotitolo eloquente: uomini, denaro e vittime nella guerra di mafia che ha cambiato l’Italia. È un libro che parla della guerra di criminalità, di carnefici e di vittime. Fra queste ci sono tante persone considerate «di secondo piano» dalla cronaca e sopprattutto dalla storia che ricostruisce i grandi drammi del nostro Paese. Antonio Calabrò - un passato da caporedattore de «L’Ora», di cronista per Il Mondo, Repubblica e poi ex direttore editoriale del Sole 24 Ore ex direttore di Lettera Finanziaria e di Apcom - oggi è consigliere delegato della Fondazione Pirelli nonché vicepresidente di Assolombarda. Siciliano, giornalista, scrittore, ha raccontato la mafia negli anni della «grande guerra alla criminalità». Presenta il suo libro domenica alle 18 al Grand Hotel Imperial Levico Terme. Sarà una presentazione incrociata: Calabrò dialogherà con il collega Paolo Morando, autore de «80, l’inizio della barbarie» (Laterza, 2016). Modera Alberto Faustini, direttore quotidiano Alto Adige e Trentino.
Calabrò, c’è la mafia - quella vera - e poi ci sono quelle che, nella sintesi giornalistica, vengono chiamate le «mafie e mafiette», che popolano regioni, comuni e rioni.
«Come dice Sciascia, se tutto è mafia, niente è mafia. Non confonderei tutto in un unico calderone. Si registra la presenza di organizzazioni criminali anche in regioni estranee a quelle di origine, non c’è dubbio. E poi ci sono meccanismi di corruzione diffusa, che agevolano la penetrazione mafiosa. L’inefficienza e la corruzione rendono la pubblica amministrazione permeabile alle infiltrazioni mafiose».
La criminalità organizzata è ben radicata anche nel nord, anche se ci sono forze politiche che si ostinano a negarlo.
«Che la ‘ndrangheta sia diffusissima in Lombardia non lo dico io ma lo dicono fior di sentenze passate in giudicato. E poi non sono esenti territori come l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Liguria e il Veneto. Oggi però le cose stanno migliorando nel nostro Paese, grazie anche all’impegno di tanti imprenditori».
Sono loro che tengono alta la guardia?
«Assolutamente. E lo fanno non solo per una scelta morale, ma anche per una ragione economica. Con la sua presenza nei gangli vitali del sistema economico, la mafia inquina il sistema, avvelena il mercato. Gli imprenditori sono quindi i primi a volerla sconfiggere».
Gli imprenditori anti-pizzo sono stati per lungo tempo abbandonati dallo Stato.
«Dobbiamo individuare due momenti storici diversi. Uno è quello in cui gli imprenditori anti-pizzo si sono trovati da soli. Poi, dopo l’assassinio di Libero Grassi e di tanti altri, comincia una reazione sociale rispetto alle prepotenze della criminalità. Nascono le associazioni anti mafia, c’è l’impegno di Confindustria Sicilia. C’è da dire, per rispondere alla domanda, che gli imprenditori in passato sono stati lasciati soli dallo Stato e anche da tanti colleghi. Ora penso però che il clima sia cambiato».
Un ex ministro, Pietro Lunardi, una volta disse: con la mafia dobbiamo convivere.
«Con la mafia non si può convivere».
Ma potrà mai essere sconfitta?
«Come diceva Giovanni Falcone, la mafia è un fenomeno storico. Avrà un inizio e una fine. Si tratta di accelerare il percorso che ci può portare alla fine».
Lei che giudizio dà dell’operato di Claudio Martelli, come ministro della Giustizia all’inizio degli anni novanta?
«Martelli si è indubbiamentte impegnato molto. Chiamò lui Falcone al ministero».
Politicamente pagò questa chiamata?
«Martelli ha pagato tante cose, probabilmente anche questa».
Nel Suo libro lei parla di tanti personaggi considerati minori. Parla anche di un giovane corrispondente de «L’Ora», Cosimo Cristina.
«Cristina era un giovane cronista di provincia che aveva capito quanto le organizzazioni mafiose fossero radicate nel territorio. Aveva colto la portata del rapporto tra criminalità, affari e politica. Su questi uomini, che hanno dato la vita per la verità e per la giustizia, cala spesso una cappa di silenzio. Il mio libro vuole essere un contributo alla memoria di tante persone, che hanno fatto bene il proprio mestiere in territori dove la mafia è florida».
Nel libro si parla anche di un poliziotto, Caloggero Zucchetto, morto a 27 anni. Tanti pensano che chi sceglie un mestiere di quel tipo debba mettere in conto di perdere la vita.
«Il rischio di lasciarci la pelle è di tante funzioni ma non c’è scritto da nessuna parte che questa debba essere la normalità. Zucchetto era un investigatore molto bravo. Correva dei pericoli, perché erano pochi i poliziotti impegnati in quel periodo».
Perché erano pochi? Per colpa di chi?
«La percezione della priorità non era così diffusa a livello nazionale. Anche Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto a Palermo, morì perché non aveva quei poteri di cui avrebbe avuto bisogno. Vede, il 1982 per la maggior parte degli italiani è l’anno in cui l’Italia di Bearzot vinse i mondiali, ma è anche l’anno in cui morirono dalla Chiesa e Pio La Torre».
Calabrò, perché ha scritto questo libro?
«Perché la mafia non è affatto scomparsa, continua ad esistere, a fare affari. Ci sono latitanti importanti. Penso a Matteo Messina Denaro. Penso all’articolazione della ‘ndrangheta e della camorra. La mafia, in senso generale, ha allargato la sua sfera di influenza. È entrata nelle istituzioni. Trenta anni fa il maxiprocesso l’aveva messa in ginocchio. Serve la repressione ma serve anche un processo di rafforzamento della formazione culturale, sociale ed economica».
Potremmo dire che la lotta al «virus» della mafia è come la lotta al virus dell’Aids: si rischia di parlarne troppo poco e quindi di abbassare la guardia e di venire «contagiati». O no?
«Il paragone è un po’ ardito ma ci sta. Ci sono dei problemi strutturali di fondo che investono gli equilibri sociali, di convivenza ed economici. ll pericolo è sempre quello di non parlarne, di sottovalutare. Quella contro la mafia è una lotta dura, che vinceremo, ma dura».

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