Scontro sull'invalidità, ricorso diffamatorio Condanna e risarcimento al medico offeso

Aveva chiesto che le fosse riconosciuta l'indennità di accompagnamento e di fronte al diniego, ha presentato ricorso alla commissione di medicina legale. Fino qui nulla di strano. Ma quello che potrebbe sembrare un normale contenzioso fra un cittadino ed un medico chiamato a valutare il grado di invalidità, ha imboccato i binari della giustizia penale. Motivo? Le insinuazioni offensive contenute nel ricorso che, essendo visibili a più persone, sono state considerate lesive della reputazione del medico e diffamatorio. Parole al veleno, per le quali è arrivato un conto salato: la donna è stata condannata a 200 euro di multa, al pagamento delle spese di costituzione di parte civile (oltre mille euro) e al risarcimento di 500 euro per il danno morale.
La singolare vicenda finita sul tavolo del giudice di pace di Pergine risale al giugno 2015. Al centro del procedimento c'è il ricorso presentato alla commissione di medicina legale dell'Azienda sanitaria di Trento, contro il diniego dell'indennità di accompagnamento di cui la donna aveva presentato richiesta, previo riconoscimento di un aggravamento dell'invalidità civile. Un ricorso, come viene evidenziato dal giudice, che per sua natura non ha dunque una natura e forma «riservata», trattandosi di un atto diretto a più persone. Sotto accusa sono finite le «insinuazioni» contenute nella missiva. Nel mirino della donna è finito il medico legale che aveva fatto la visita domiciliare e che, dunque, aveva poi determinato il responso negativo alla sua richiesta. Nel ricorso, come ricostruito dall'accusa, si faceva riferimento al fatto il dottore si farebbe pagare per essere benevolo e che la domanda di aggravamento sarebbe stata accolta se avesse pagato una visita di 350 euro. «Mi è stato riferito che alla "..." dove lui lavora prende 350 ? per la visita e poi...», una delle frasi incriminate. E ancora, «Ricordo che il dr (...) è venuto a casa per la visita senza preavviso (forse pensava...)». Espressioni insinuanti e frasi dal tono allusivo, che avrebbero leso la reputazione del medico. «L'istruttoria - scrive il giudice Alberto Bertolini - ha confermato la fondatezza della tesi accusatoria. La testimonianza della parte offesa non lascia alcun dubbio che le espressioni formulate dalla imputata in quello scritto contengono, sebbene in forma allusiva, costituiscano diffamazione integrando dunque il reato ipotizzato dal momento che quello scritto, in forma di ricorso, era indirizzato ad una commissione d'appello composta da più persone, e quindi che tale scritto fosse per sua stessa natura diretto e sottoposto a lettura di un numero certamente superiore a tre soggetti, circostanza anch'essa poi emersa nel corso dell'istruttoria».
In questo modo, dunque, la donna avrebbe arrecato un danno alla buona opinione che il medico aveva presso gli altri colleghi. «La reputazione - ricorda il magistrato - non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, ma con il senso della dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico. Ne deriva la relatività della nozione di reputazione». In questo caso, nel valutare se quelle dichiarazioni potessero essere considerate diffamatorie, si sono ritenuti ricorrenti «gli estremi dell'offesa ingiusta integrante il reato di diffamazione, in quanto l'addebito era stato espresso in forma tale da suscitare non solo il semplice dubbio in ordine alla fedeltà del medico». L'intendo diffamatorio sarebbe stato raggiunto proprio con allusioni lesive della reputazione del professionista.
Da qui la condanna alla multa, al pagamento delle spese di costituzione, ma anche al risarcimento alla parte offesa per la sofferenza e il disagio causato dalla paziente «arrabbiata» con quelle insinuazioni.

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