Disciplina sovietica e passione latina: a Trento si balla da 50 anni con Giovanna Menegari

di Matteo Lunelli

Vienna e Trento, la disciplina sovietica e alcune incomprensioni con il clero, i minatori e West Side Story, Georgj Melitovic Balancivadze (George Balanchine) e il Papa, un incidente stradale e l'odio per i computer. Parrebbe una lista di parole messe a caso, ma non lo è: il classico filo rosso c'è, anche se non si vede. Risponde al nome di danza e, per voler essere più precisi e dare un nome e un cognome, quel filo rosso si chiama Giovanna Menegari. A Trento è un'istituzione: impossibile non averla mai sentita nominare o non aver avuto un'amica o una compagna di classe (anzi, anche un amico o un compagno di classe) che non abbia frequentato la scuola di danza che porta il suo nome. Una scuola che compie 50 anni. Gennaio 1966, gennaio 2016: cinquant'anni di balletti e coreografie, di bambine e bambini, di arabesque, pirouette e brisé, di una società cambiata e di una città che l'ha capita e accettata.

Giovanna Manegari è una donna di grande carisma e di grande classe, che porta benissimo i suoi quasi 69 anni («Vedendo il numero 50 nei manifesti mi chiedevano se fossi io a compiere mezzo secolo, ma purtroppo sono molto più vecchia...»). Non parla praticamente mai di sé, se non attraverso aneddoti legati alla sua scuola. Dire che ama la danza è riduttivo. La sua attività di insegnante è nata per caso, anzi per colpa (o merito, o causa) del fato. Racconta questo episodio della sua vita dopo che l'aveva solo accennato all'inizio della chiacchierata, dopo una seconda domanda.

«Poco più che diciottenne ho abbandonato la carriera come ballerina, in seguito a un incidente. Avevo finito gli studi a Vienna, stavo andando in macchina a Bologna con un'amica e collega ballerina, per firmare un'assicurazione sulle mie gambe». Siamo a metà degli anni Sessanta. Giovanna, nata a Merano, aveva studiato in Austria, «in una città dove musica e ballo si respirano in ogni angolo», e veniva di tanto in tanto a Trento, «per trovare mio fratello che studiava all'Arcivescovile: era una città che mi metteva tristezza, per me era sinonimo di distacco». Davanti a questa ragazza la possibilità di una carriera importante nei teatri di tutto il mondo. Ma torniamo a quel viaggio in macchina. «Pioveva fortissimo e poco dopo Mattarello mi sono accorta che i freni non funzionavano. Ho detto alla mia amica di andare a sedersi dietro. Poi l'incidente, un frontale con un camion: l'auto era talmente distrutta che nessuno veniva a soccorrerci perché pensavano fossimo morte». Nell'urto vengono colpite le gambe. «Mi sono ripresa, anche adesso mi muovo bene e forse avrei potuto riprendere a ballare, ma in quei giorni capì che la danza non sarebbe stata più la stessa per me, non sarebbe stato giusto continuare quella carriera. Così mi sono dedicata all'insegnamento. Io sono molto credente e penso che quell'incidente facesse parte di un disegno divino, che ho capito e accettato negli anni. I rimpianti non servono a nulla».

Nella Trento di fine anni Sessanta, tra Chiesa e lotta studentesca, arriva una piccola scuola di danza. «Quando sono arrivata la danza non esisteva, era una città grigia. Alcune mamme della Trento bene portavano le loro bimbe e mi dicevano "Non dica in giro che mia figlia balla". Poi, anno dopo anno, la scuola ha preso piede e in questi cinquant'anni ho visto passare centinaia, anzi migliaia di ragazzine e ragazzini».
Proviamo in tre aggettivi a descrivere le caratteristiche che devono avere gli allievi: talento, passione e disciplina. «Perfetti direi. Aggiungerei serietà e rispetto. I genitori mi affidano i bambini e oltretutto pagano una retta: io ho tantissimo rispetto per quella retta e insegno loro che sono fortunati, ripeto sempre che devono dire grazie. I ragazzini di oggi hanno troppo, hanno tutto. L'unica cosa che non hanno sono i "no". A volte sembra che sia tutto dovuto, ma non è così: bisogna imparare a dire grazie».

Danza, e a un adolescente viene in mente «Amici» di Maria De Filippi. «Parliamo di West Side Story o Scarpette Rosse o Billy Elliot, non di scorciatoie. Parliamo di cose serie. Bisogna studiare e lavorare, non farsi distrarre: ogni cosa ha il suo tempo, ogni frutto la sua stagione. Ricordo la mia scuola a Vienna, era proprio come quella di "Saranno Famosi", bellissima. Adesso vanno di moda funky e hip hop, e questo mi fa orrore». 

Da Billy Elliot («ricordo Simone, il mio Simone: un talento straordinario, che smise perché a scuola i suoi compagni lo prendevano in giro») e i minatori inglesi alla Russia il passo è brevissimo. «Ritengo il minatore e il ballerino i due mestieri più difficili al mondo. Ci vogliono testa e gambe, cuore e sacrificio. Quello che insegna la scuola di San Pietroburgo, la vera patria della danza. Tutto è partito da lì e si è espanso, a Parigi e Londra, Mosca e Berlino».
Disciplina e severità («non a caso anche nell'Avana di Fidel Castro c'era spazio per il balletto»): l'arte, che sia musica o danza, insegnata e vista come un mestiere. «Sono stata in Russia ai tempi di Bre?nev: bastava dicessi che ero una ballerina e si aprivano le porte, mi davano una mano. C'era grande rispetto per l'arte e per l'artista». 

Cosa chiederebbe a Babbo Natale? «La mia più grande aspirazione è portare l'Ave Maria coreografata dal Papa: con Wojtyla ci ero stata abbastanza vicina, ma poi si è ammalato. Comunque non mollo, prima o poi ce la farò. A parte questo vorrei tante cose, però quelle veramente importanti non posso dirle perché diventerebbero pubbliche. Quindi nella letterina chiederei semplicemente maggiore attenzione per la cultura e la danza».

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