Addio a Finney da Poirot a Skyfall

Chi ha conosciuto la smagliante stagione del "free cinema", quella generazione di arrabbiati che all'inizio degli anni '60 rivoluzionò lo spettacolo inglese e da lì si sparse nel mondo, non può togliersi dalla mente Albert Finney, smargiasso e irridente nei panni del seduttore Tom Jones, protagonista del film di Tony Richardson (1964). Di quella generazione, insieme a Tom Courtenay, Alan Bates e al veterano Richard Burton, Finney, scomparso oggi a 82 anni, era il volto e il simbolo. Nato a Salford nel Lancashire il 9 maggio del 1936, scapestrato rampollo delle working class di provincia, aveva il teatro nel sangue e divise i banchi della Royal Academy con Peter'O Toole a cui per anni contese la popolarità. Debuttò nel cinema nel 1960 con "Gli sfasati" (pigmalione Tony Richardson) e piacque tanto a David Lean da vedersi offrire il ruolo da protagonista in "Lawrence d'Arabia".

Spaventato dalla lunghezza delle riprese e dall'idea di tuffarsi nelle grandi produzioni, il giovane talento pronunciò il primo "no" della sua carriera, fece strada a ÒToole e preferì "Tom Jones".Fu un trionfo che gli spalancò le porte di Hollywood, compresa la prima nomination all'Oscar. Ma quella sera Finney era in vacanza nei mari del Sud e non si presentò, come del resto le altre quattro volte in cui avrebbe sfiorato la celebre statuetta. Negli anni '60 divenne una star del palcoscenico e Laurence Olivier lo designò suo erede. Lui restò legato al suo paese e il vecchio Stanley Donen fu costretto a stanarlo nella meravigliosa campagna inglese e francese per farlo recitare in coppia con Audrey Hepburn in "Due per la strada"(1967). A teatro fu grande in tutti i maggiori ruoli shakespeariani, ma quando Olivier volle passargli ufficialmente il testimone alla testa del National Theatre, per la seconda volta Finney disse "no". E altrettanti garbati dinieghi avrebbe opposto alla Regina quando gli fu offerta la croce di Comandante dell'Impero Britannico e poi il cavalierato. "Chiamatemi Sir se vi piace - disse ridendo - ma io non dimentico che la nobiltà in Inghilterra fu inventata da baroni che erano prima di tutto dei gran ladri".   

Sullo schermo è stato protagonista in quasi 50 pellicole e in tv ha scritto pagine memorabili come quando si calò nei panni di Churchill per "Guerra imminente", la miniserie del 2002. A teatro per molto tempo non ha avuto rivali (era già il sostituto di Olivier in "Coriolano" nel 1958), ma non ha mai avuto tutti i riconoscimenti che meritava per una naturale ritrosia che ne faceva un orso difficile da domare. "Non mi piacciono le interviste, i parties, le conferenze. Io sono nato per recitare e sono me stesso solo quando recito". Tre Golden Globes, due premi alla Mostra di Venezia e al Festival di Berlino, riconoscimenti alla carriera e tributi in patria brillano nella sua casa londinese dove ha vissuto un lungo autunno solitario con a fianco la terza moglie, Pene Delmage, sposata nel 2006 dopo molte avventure galanti, una tempestosa storia con Anouk Aimèe e un figlio avuto, giovanissimo, da Jane Wenham. Quel che la critica e le giurie non gli hanno dato, Finney lo ha avuto dal pubblico e dai colleghi, specie i registi inglesi che a lui si affidavano per le imprese più rischiose.

Basti pensare al giovane Ridley Scott per cui recitò ne "I duellanti" in cambio di una cassa di champagne, a Stephen Frears ("Gumshoe"), Roland Neame ("Scrooge"), Alan Parker ("Spara alla luna"), Peter Yates ("Servo di scena"), Mike Figgis ("I ricordi di Abbey"). Fino a Sam Mendes che gli regalò nel 2012 l'ultima apparizione cinematografica con il formidabile cameo in "Skyfall" nel ruolo del guardiacaccia Kinkaid che affianca James Bond nell'ultima battaglia per salvare il suo capo, M. Oltre oceano le soddisfazioni gli arrivano soprattutto da grandi vecchi e giovani maestri di Hollywood. Sidney Lumet gli affida la parte di Hercule Poirot nel corale "Assassinio sull'Orient Express" (1974) per il quale vince la concorrenza di Alec Guinnes e Paul Scofield  e ottiene l'assenso più ambito, quello della stessa Agatha Christie, sull'onda di uno straordinario successo di pubblico. Attore e regista si ritroveranno sul set dell'ultimo film di Lumet, "Onora il padre e la madre" (2006), dando vita a un duetto di virtuosismo dietro e davanti alla macchina da presa. A Hollywood Finney era stato adottato da John Huston ("Per me è stato come un secondo padre") che lo chiama per "Annie" (1982) regalandogli il più ricco contratto della sua carriera (un milione di dollari) e poi per "Sotto il vulcano" (1984). 

Il testimone passerà poi ai più giovani Fratelli Coen ("Crocevia della morte", 1990), Steven Soderbergh ("Erin Brockovich", 2000) e soprattutto Tim Burton che lo vuole nel suo film più personale e commovente, "The Big Fish" nel 2003. Nel ruolo di un padre sbruffone e sognatore, mentitore e favolista, cinico e romantico, Finney si riconosce totalmente, fino a farne il suo alter ego artistico. Ed è così che oggi merita di essere ricordato: attore e istrione, disincantato e romantico, timido e sfrontato.

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