Cultura / Il libro

«L'Italia che dimentica il proprio colonialismo e crede alle bufale sulle opere costruite per gli africani»

Un nuovo saggio dello storico trentino Francesco Filippi indaga l'oblio e la disinformazione sull'espansionismo italiano. E pensare che appena pochi giorni fa Vittorio Sgarbi al Mart di Rovereto ha ripetuto che «il fascismo ha fatto anche cose buone, ad esempio all'Asmara»

IL CASO Sgarbi presenta Depero: «Il fascismo ha fatto anche cose buone»

ROVERETO. Se il presidente del Mart, Vittorio Sgarbi, dice tranquillamente in pubblico ad una presentazione ufficiale che "Il fascismo ha fatto anche delle cose buone. Ad esempio ad Asmara", allora rivolgetevi a uno storico di professione, che sul colonialismo italiano fascista ha scritto il suo nuovo saggio.

La capacità dell'oblio è al centro del nuovo saggio di Francesco Filippi «Noi però gli abbiamo fatto le strade» (Bollati Boringhieri) da poco in libreria e che l'autore sta presentando in varie occasioni: la prossima a Rovereto, sabato 30 ottobre ore 18 presso la libreria Arcadia.

Filippi si definisce "storico della mentalità" ed ha pubblicato diversi saggi negli ultimi anni che ripercorrono le fake news della narrazione sull'Italia e gli italiani.

Questo saggio si inserisce in questo filone, come lui stesso ci ha spiegato: «"Noi però gli abbiamo fatto lestrade" è un nuovo mattone all'interno della mia idea di ricostruzione della memoria mancata degli italiani - dice Filippi - nel solco del lavoro iniziato con "Mussolini ha fatto anche cose buone".

Il tema del colonialismo per me che sono storico della mentalità, è veramente peculiare e pone una domanda lacerante: il colonialismo per gli italiani è stato il fenomeno di più lunga costanza e durata. Parte dal 1869 e arriva fino al 1970 ed è a tutti gli effetti il fenomeno storico più solido all'interno della storia del paese. Un fenomeno di questo tipo dovrebbe avere una forte caratterizzazione memoriale all'interno del ricordo: invece manca quasi totalmente e quel poco è aggrappato alla propaganda che tutti i governi italiani fecero per spiegare l'oltremare ai cittadini».

Dalla sua analisi quali verità emergono?

«Preferirei parlare di realtà più che di verità in quanto la mia analisi ha un accento etico. C'è una differenza rispetto a "Mussolini ha fatto anche cose buone". In quel caso si trattava di smontare della fake news. Invece sul colonialismo mi sono trovato di fronte al deserto: non c'era molto da smontare perché c'era poco da ricordare. In quel poco ci sono le bufale delle infrastrutture, le strade costruite dagli italiani, transitate in tutti i tipi di governo di questo paese. Sono bufale stabilmente inserite nella lettura storica degli italiani. È molto più diffusa l'idea che l'Italia ha costruito le strade nelle colonie rispetto a quella per cui Mussolini ha fatto anche cose buone. Banalmente perché la seconda affermazione ha un carattere politico e crea schieramenti. Mentre c'è unanimità nell'idea che gli italiani siano stati delle brave persone dedite alla costruzione di infrastrutture per gli africani».

Come sono andate veramente le cose nelle colonie?

«Il mio non è propriamente un libro sulla storia delle colonie. Parla della mancata percezione del colonialismo. Il tema centrale è quello della capacità dell'oblio».

Un esempio potrebbe essere che nella cultura Rasta e nelle stesse liriche di Bob Marley, le cui canzoni sono state canticchiate da milioni di italiani, si narra della infame cacciata del loro leader Hailè Selassiè perpetrata dagli italiani?

«Sfido molte persone che in maniera sincera e appassionata abbracciano la cultura rastafariana a sapere che il rastafarianesimo nasce da Hailé Selassié cacciato da Mussolini. Quanti italiani sanno che il mitico "Lion in Zion" è proprio Hailé Selassié che deve fuggire dagli italiani? Da noi. C'è tutta una parte di cultura pop da cui gli italiani si sono auto cancellati sempre in funzione del mito "italiani brava gente"».

All'origine del colonialismo non c'è il fascismo, ma il bisogno politico economico dell'Italia del 1869?

«Se noi ben guardiamo l'aspetto economico dei possedimenti italiani scopriamo che l'operazione colonie è un enorme buco nel bilancio dello Stato. Non sono mai riusciti a cavarne un granché. Nessuna delle colonie arriva stabilmente all'autosufficienza attraverso la tassazione. Uno dei maggiori impulsi del colonialismo "straccione" italiano fu il prestigio. Tra '800 e '900 essere una grande potenza significava anche avere dei possedimenti coloniali. L'italia arriva tardi e non può concorrere con potenze già mature come la Gran Bretagna e la Francia. Quello italiano è un colonialismo di risulta, residuale. Gli italiani si prendono gli "avanzi" degli altri paesi europei».

L'ultima esperienza coloniale, in Libia, finì il 7 ottobre 1970 con "La giornata della vendetta" quando Gheddafi cacciò gli italiani e istituì quel giorno come festa nazionale: anche di questo e dei tanti italiani, molti bambini nati in Libia, che dovettero ritornare in patria lasciando le loro case, non c'è memoria?

«Circa 120 mila italiani dagli anni 40 in poi si erano stabiliti in Libia. Nel 1970 erano rimasti in 20 mila: non riescono ad entrare nell'immaginario perchè allora l'Italia pensava ad altro. È un dramma vissuto, ma non raccontato. L'italia era proiettata verso la modernità e le colonie sembravano un lascito del passato. I profughi dalla Libia per molti rappresentarono l'ultimo strascico di una guerra persa e mal digerita che aveva sempre a che fare con l'imperialismo fascista. C'era anche chi in pieno clima di decolonizzazione, soprattutto a sinistra, vedeva negli esuli libici l'ultimo resto di una occupazione fascista indebita. Cosa non del tutto vera perché sin dal 1860 in Libia si trovavano dei gruppi di siciliani che avevano deciso di trasferirsi pacificamente in quel paese. Non erano tutti coloni mandati dal fascismo: ma all'epoca Gheddafi non fece molte distinzioni».

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Nella foto, databile fra il 1930 e il 1933, popolazione della Cirenaica internata nel campo di concentramento italiano di El Agheila. Su via libera di Mussolini la popolazione indigena cirenaica fu deportata in lager fascisti in cui le condizioni di detenzione erano pessime (poco cibo, sovraffollamento, niente igiene); inoltre, 12 mila persone furono condannate a morte e uccise dalle milizie italiane.

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