Mario Bernardo, ultimi racconti di un partigiano

di Renzo Maria Grosselli

Sono gli «Ultimi racconti '944» di un grandissimo uomo, Mario Bernardo, 96 anni, ex partigiano «garibaldino», promotore di cinema, direttore della fotografia in film di grandi registi (Rossellini, che ama ancora, e Pasolini che non ha mai amato), per 25 anni docente di Tecnica della ripresa al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, autore di 400 tra film, documentari, short pubblicitari, sceneggiati tivù. Questi racconti, proposti da un libriccino piuttosto modesto (i soldi i partigiani non li hanno mai avuti) è stato prodotto dall' Anpi sezione di Mira (Bernardo è veneziano). Sarà presentato oggi, venerdì, alle 17.30 a Sala Aurora di palazzo Trentini, a Trento.
 
Vive da anni a Bieno, Bernardo, perché quella era la casa di sua madre, in cui recuperò nel 1944 tre fucili, cosa che racconta nel suo testo. Ma il Trentino «candido» non gli ha mai tributato soverchi onori. Di lui vuole dirci solo: «I medici mi hanno dato due anni di vita. Sei mesi fa», ma lo dice in modo pimpante perché è uomo che non deflette. Il libriccino racconta nella gran parte delle sue pagine la storia partigiana dell'autore sul Monte Grappa e in Veneto. Una vicenda narrata quasi fosse la sceneggiatura di un film. Una buona sceneggiatura perché Bernardo è uno degli ultimi eruditi di questi nostri anni in svendita. Eccone un passo: «L'immagine del sole si compose nella fantasia del giovane, che si alzò ritto in piedi quasi senza più curarsi dei tedeschi poco discosti».

La vicenda è quella della «pulizia del Grappa», il grande rastrellamento voluto da Kesselring nel settembre del 1944. In cui si è scritto siano stati impegnati 10.000 soldati (molti erano altoatesini), affiancati dalle Brigate nere e dalla Guardia nazionale fascista. Il risultato? Si parlò di 600 fucilati, tra partigiani e inerme popolazione. Vennero bruciati villaggi, incendiate malghe e fienili, sterminato bestiame. L'ira nazifascista si abbattè su gente e paesaggio come quella di un divinità barbara. Ma dopo quel mattatoio, seguirono anche le azioni esemplari. Il 26 settembre, ad esempio, a Bassano furono impiccati sul vialone, con fili elettrici, 31 giovani partigiani (altri 19 furono fucilati dopo). Ma ieri Bernardo ci raccontava che i numeri veri potrebbero essere molto maggiori: «Alla mattina presto i tedeschi erano passati coi lanciafiamme: distruggevano i cadaveri. Mica per dissimulare il loro eccidio ma semplicemente, da teutonici, per motivi igienici». 

Racconta la sua storia di ufficiale dell'esercito che sale in montagna, Bernardo. Ma anche la sua vicenda di comunista, uomo di grande raziocinio, quasi scientifico nel suo operare. Che non andò in montagna per romanticismo, per la lotta impossibile contro il nemico imbattibile (i partigiani, dice e scrive, avevano pochissime armi, vecchie e vecchissime, e soprattutto quasi non disponevano di munizioni). Andò lassù per fare al nemico il massimo del male possibile, per cercare di accorciare quindi la straziante agonia dell'occupazione e della guerra. In questo, secondo noi, sta la ragione della pubblicazione di quel primo, lungo saggio, sulla retata di Kesselring, scritto nel 1947 e non pubblicato dai suoi capi del giornale comunista «l'Unità».
 
Bellissimo ma esistenzialista, gli disse il suo superiore. «Ormai io sono la storia. Ero l'unico capo partigiano rimasto sul campo prima del rastrellamento. Il mio, l'unico reparto che ha tenuto le armi sino alla fine». Tra l'altro, ebbero uno scontro a fuoco con le camicie nere della Divisione Tagliamento. Il nemico era comandato da Giorgio Albertazzi, il futuro attore. «Spararono solo un colpo, errando la mira, rispondendo a una mezza nostra raffica di mitra». Bernardo, di Albertazzi, dice che è stato un grande attore, con cui ha anche lavorato: «Sapevamo tutti e due di esserci già incontrati, il cinema è un ambiente pettegolo, fatto per mostrare. Certo, questo spettro ci divideva». 

Ma perché raccontare oggi questa pagina del dramma italiano? «Per dimostrare inutilità e stupidità della guerra. Oltre a dimostrare, nel dettaglio, che la guerra partigiana non dovrebbe mai mirare alla conquista del territorio, ma fare il maggior danno e sparire». In realtà, con la sua scrittura Bernardo dimostra altro: racconta di come tra le fila della Resistenza ci siano state delle responsabilità precise per quel massacro perpetrato dai nazifascisti: pressapochismo, vanità, stupidità (talvolta anche fellonìa) di certi comandanti, capitati in montagna per una guerra a cui, probabilmente, non erano preparati.
 
 
«Ma ho scritto queste cose anche per far capire la sofferenza di quei combattenti. Cercando di metterci in salvo, con i miei uomini, sono stato sei giorni senza mangiare e quasi senza bere. Il Grappa non ha vegetazione e acqua, solo poche buche di acqua immonda che erano state usate dal bestiame. Per bere mangiavamo le poche foglie che trovavamo e aprivamo la bocca per inghiottire la pioggia». Si salvarono perché li aiutò la nebbia ma anche per quella sua mente razionale e poco romantica.
 
«Come comunista avevo dei gradi di responsabilità, non di carica, quando lasciavi un incarico tornavi garibaldino semplice, una cosa molto bella».
Gli altri due racconti di Bernardo sono molto brevi.
Il primo narra di come un gruppetto partigiano riuscì a liberare 70 prigionieri, presentandosi all'appuntamento con le armi volutamente scariche.
«Il contenuto poetico della Resistenza» dice oggi. Il secondo è una breve biografia del comandante Carlo, a capo del reparto che aveva liberato quei partigiani. «Quando morì, non ne scrissero una riga».
 

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