Il lutto / Intervista

La tragedia di Mostizzolo, mamma e figlioletto morti: ora bisogna aiutare chi è rimasto

Lo psicologo Gianluigi Carta, vicepresidente dell’Ordine provinciale, spiega l'importanza del supporto nella gestione del dolore ed esamina in linea generale il tema drammatico dell'omicidio-suicidio: dal punto di vista di una mamma può nascere dalla volontà di proteggere il piccolo dalla sofferenza, altre spiegazioni potrebbero arrivare alla vendetta

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TRENTO. Quando accadono fatti così gravi e che colpiscono nel profondo tutti è naturale che ognuno si ponga delle domande e personalizzi la vicenda. Per gli esperti è però altrettanto difficile dare risposte, perché ogni storia è a sé.

Gianluigi Carta è vicepresidente dell’Ordine degli psicologi di Trento. Il suo primo pensiero, in questa vicenda, è per chi resta e per questo calibra le parole e soprattutto non vuole entrare nel merito specifico della vicenda.

«Le persone che scelgono soluzioni così estreme hanno una loro verità, un percezione della realtà che è peculiare. A volte ci sono delle franche patologie che giustificano questi gesti, alla base dei quali c’è sempre una sofferenza estrema a cui si cerca di dare una risposta con l’interruzione della vita e quindi della sofferenza stessa.

Altre volte le riposte sono più articolare e non sono identificate in una patologia conclamata e chiara. L’omicidio/suicidio richiama la possibilità che ci fosse qualcosa di pregresso, relativo a una relazione sentimentale difficile, che possa essere stato fattore di rischio che ha portato a una scelta così estrema.

Uno dei timori che emergono nelle persone quando succedono queste cose è: “Ma io sarei in grado di fare una cosa del genere?”. La risposta è: molto probabilmente no. Queste cose non succedono, a meno che non ci sia qualcosa di grave dietro, una depressione importante, un disturbo della personalità. E non sto parlando di questo caso specifico, ma in generale.

La domanda però è: perché una madre può arrivare ad uccidere il proprio bambino?

All’interno di un quadro patologico si struttura un’idea che è irrazionale per chi la vede dall’esterno, ma che è estremamente lucida per chi la vive.

Ossia si uccide il figlio per proteggerlo. Il pensiero è: “siccome in questa situazione siamo tutti destinati a una grandissima sofferenza per una serie di ragioni allora non voglio tu viva la sofferenza che sto vivendo io, per cui ti proteggo da questo uccidendoti. Per noi che lo vediamo dall’esterno è un atto poco protettivo ma dal punto di vista della mamma è diverso. Poi ci sono spiegazioni che vanno oltre che sono anche più dolorose.

Come ad esempio che uccidere il figlio è una vendetta nei confronti del padre?

C’è anche questa possibilità, che una mamma possa uccidere il figlio per vendicarsi del compagno, sottraendogli l’amore del figlio, ma è anche per lasciare agli altri che rimangono l’elaborazione di un dolore a cui lei non è riuscita a fare fronte e quindi mette nelle mani di chi resta. É come se lasciasse in eredità questo dolore affinché chi resta ne faccia qualcosa. Una via di mezzo tra la vendetta e l’incapacità di gestire un dolore troppo grande.

Qualunque sia la spiegazione, di base c’è un dolore. Ma è possibile che una sofferenza così grande possa passare inosservata? É possibile nascondere un malessere così forte?

A volte è possibile. Non so se in questo caso è accaduto. C’è una facciata molto sociale che abbiamo e che non lascia trasparire tutto quello che proviamo. É possibile che trapelino dei dettagli, ma quasi sempre questi dettagli non fanno pensare ad un gesto così estremo. Non sta nella capacità immaginativa di nessuno pensare che una madre che mostra qualche sofferenza possa arrivare a gesti estremi. Spesso accade che ognuno veda un pezzettino, ma non il quadro completo.

Però qualcosa si deve pur poter fare?

Certo, sicuramente avere uno sguardo empatico e compassionevole nei confronti della sofferenza in generale per poter aiutare, incoraggiare e indirizzare ogni volta che qualcuno la manifesta. In questo momento, se parliamo di questo caso, non vanno cercato colpe di chi non ha colto segnali, ma piuttosto bisogna pensare alle persone che sono rimaste.

E non parlo solo del padre del bambino o dei familiari stretti. Questa è una vicenda che colpisce anche molto lontano: colpisce chi ha figli, colpisce gli insegnati, colpisce gli amici, colpisce la comunità.

É come un sasso gettato nel lago che genera cerchi concentrici che man mano che si allontano dall’epicentro diventano sempre più deboli, ma arrivano lontano.

Quindi è importante aiutare chi rimane, in senso molto ampio, nella gestione del dolore. Un fatto come questo deve suggerirci quanto sia importante prendersi cura in modo empatico degli altri e essere sensibili alla salute mentale, alla sofferenza mentale in generale. Ci dovrebbe lasciare questo quanto accaduto. P. T.

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