Debora Furlani, chi è l'ingegnere che ha riorganizzato gli ospedali trentini per il Covid

"Un grande lavoro di squadra. E ringrazio prima di tutto gli operai"

di Patrizia Todesco

TRENTO - Debora Furlani è direttore del Dipartimento infrastrutture dell'Azienda sanitaria dal 2018. Laurea in ingegneria edile a Trento in questo anno di Covid è stata una vera e propria "macchina da guerra".

Grazie alla sua squadra, di cui fanno parte anche un centinaio di operai, ha potuto dirigere, ideare, pensare e realizzare nuovi reparti e nuove strutture, ma anche rivoluzionare quelle esistenti per adeguarle alle nuove esigenze. Un lavoro continuo che ha garantito il funzionamento di un sistema efficiente.

Quale è il suo primo ricordo legato a Covid 19?

É legato alla necessità di convertire in tempi rapidissimi e senza avere le idee molto chiare le strutture necessarie per accogliere le persone malate che nella prima fase sono state prevalentemente accolte nelle terapie intensive. In poco tempo abbiamo dovuto inventare una conversione di posti letto senza avere avuto precedenti in questo senso. Venivano richieste soluzioni nuove per un problema non noto e senza che ci fossero dei riferimenti.

Il problema non erano però solo le rianimazioni, ma anche gli altri reparti.

Siamo dovuti intervenire subito su tutte le strutture ospedaliere. I pazienti, ad esempio, transitavano dal Pronto soccorso, uno dei punti critici. Soprattutto all'inizio passavano sia pazienti Covid che no Covid e abbiamo lavorato sodo per separare i percorsi. Stessa cosa abbiamo fatto nei reparti. Il lavoro è stato in un certo senso più facile durante la prima ondata quando molte delle attività si erano fermate mentre nella seconda è tutto completamente diverso in quanto abbiamo dovuto gestire in contemporanea i problemi legati al Covid e gli altri. All'inizio mancavano proprio i materiali. penso ai ventilatori per le rianimazioni.

Il Trentino, per una serie di ragioni, è stato fortunato.

Ci siamo mossi appena c'è stata avvisaglia che qualcosa di grosso stava arrivando. In anticipo rispetto alle norme "semplificative" del Ministero e in anticipo anche rispetto alle forniture commissariali e della protezione civile. Noi ce l'abbiamo fatta con i nostri mezzi. Poi è stato fondamentale il generosissimo apporto dei trentini e grazie alle donazioni abbiamo potuto acquisire tante attrezzature. Questo è stato fondamentale perché nel giro di poco tempo non c'erano più ventilatori sul mercato o quelli che c'erano erano di marchi minori e spesso non noti ai professionisti sanitari. Noi, poi, avevamo rapporti strettissimi con primari di anestesia e rianimazione e dunque sapevamo dei bisogni sia di ventilatori invasivi, nonché di caschi e maschere. Anche su quello noi siamo stati abbastanza tempestativi perché avevamo un "cruscotto di comando" e da Trento smistavamo poi le attrezzature su tutti gli ospedali.

Ci sono stati momenti in cui, nel giro di 24-48 ore, avete trasformato sale operatorie in posti di rianimazione e convertito reparti. Come ci si siete riusciti?

I primi reparti aggiuntivi sono stati realizzati in pochissimo tempo. In poche settimane siamo passati da 33 a oltre 100 posti di rianimazione con squadre di operai che lavoravano anche di notte e nel fine settimana. Gli operai sono stati fondamentali, se non avessimo avuto personale interno non ce l'avremmo fatta. Noi lavoriamo anche con global service esterni ma ciò che ha salvato la situazione è stata la conoscenza della struttura del personale interno, un centinaio di addetti.

Di cosa altro vi siete occupati oltre che di convertire reparti e posti letto?

Con il tempo sono nate tutta una serie di altre esigenze. Prima i vari drive through per i tamponi e poi successivamente i punti vaccinali.

Drive through che non sono solo dei semplici tendoni immagino.

Innanzitutto è una tenda su suolo di altri, che necessita di numerosi impianti. Poi vanno gestiti gli aspetti viabilistici, non creare impatti negativi sul traffico, va creato un punto confortevole perché il personale ha bisogno di conservare attrezzature, nonché tamponi e vaccini. Per ogni postazione bisogna bilanciare le esigenze del personale sanitario con quelle viabilistiche della zona. I punti vaccinali che sono 12, alcuni in strutture dell'Azienda, ma tanti presso terzi. Per poter avviare questa attività c'è bisogno di stipulare contratti, assicurazioni, progettare spazi, il tutto senza un'esperienza di questo tipo precendente.

Lei non è una che ama stare in ufficio. É stata spesso vista nei cantieri, sul posto.

Solo andando sul posto si riescono a capire certe cose. Sono convinta che un direttore non deve chiudersi in ufficio ma essere anche operativo. Non mi sono mai tirata indietro anche nel fare cose pratiche. Anche il luogo dal quale ho scelto di dirigere, l'ospedale S. Chiara e non la sede di via Degasperi, dimostra la mia propensione alla praticità. Non ho paura a sporcarmi le mani e nemmeno a cambiare se ci sono cose da aggiustare, per esempio nell'allestimento dei punti vaccinali. Vale il detto che non tutte le ciambelle escono con il buco, soprattutto perfette al primo colpo. Solo verificando lo stato dei lavori e la funzionalità si può aggiustare il tiro.

La maggior soddisfazione?

Devo essere sincera. Sono soddisfatta di tutto il lavoro fatto, di quello che abbiamo garantito a livello funzionale e dei tempi in cui le cose sono state effettuate le opere. C'è stata grande coesione, è stato fatto un grande lavoro di squadra. Tutti sono scesi in campo ed è stata un'esperienza importante perché si è capito che si possono risolvere problemi in tempi e modi diversi. In questa fase si sono messe in evidenza persone che hanno capacità di adattamento, flessibilità, propensione a trovare soluzioni in fretta anche in situazioni dove tutto è da inventare. Abbiamo triplicato i letti in terapia intensiva, lavorato sulla subintensiva. e rivoluzionato l'accesso ai pronto soccorsi e il tutto in 7 ospedali. Per me è stata esperienza formativa eccezionale.

Un burocrate inflessibile non ce l'avrebbe fatta.

Credo proprio di no. Fondamentale è stato cercare di metterci nei panni degli altri, di capire i bisogni delle persone che in quei luoghi lavoravano e metter loro nelle migliori condizioni di operare. Abbiamo dovuto inventare soluzione, improvvisare.

Qualche critica è arrivata da Rovereto nei reparti dove erano ricoverati pazienti Covid in stanze senza bagno.

Lì forse bastava poco per migliorare la situazione.Stiamo parlando di una struttura datata, costruita con riferimenti normativi e con concezioni diverse e lavorare su strutture esistenti e funzionanti è sempre molto complesso. Poi abbiamo dovuto necessariamente rispondere ad un criterio di priorità, quindi pensare al monitoraggio dei pazienti anche da distante, al funzionamento dei nuovi macchinari e tutto quanto poi ne è seguito. Si sta parlando di reparti emergenziali. Poi sono arrivati anche i 16,3 milioni da Roma per aumentare i posti letto nelle terapie intensive di Trento, Rovereto e Cles che diventeranno 78, lo spostamento permanente dei percorsi nei pronto soccorsi e l'acquisito di sei nuove ambulanze. In questo ambito sarà possibile che in alcuni ospedali si possano risolvere problemi strutturali legati ai requisiti minimi oggi previsti, penso ai bagni in stanza, ma non ovunque la questione è risolvibile.

Torniamo al Covid. Lei si è ammalata?

Mi sono ammalata ad inizio dicembre. Ho avuto qualche giorno di febbre alta, un gran mal di testa ma non ho avuto un coinvolgimento polmonare e quindi mi reputo fortunata. In quelle settimane ho potuto continuare a lavorare da casa.

Nel creare le nuove strutture ha preso spunto da qualche realtà, qualche modello di riferimento?

Aver lavorato in altri campi in precedenza, in Comune, come responsabile della sicurezza, nel campo delle attrezzature biomediche, sul fronte della manutenzione solo per fare alcuni esempi, mi ha permesso di avere un'esperienza in vari settori e molti contatti. Mi sono sempre tenuta in collegamento con i colleghi sia di altri settori che con le persone che ricoprono il mio stesso ruolo e lo scambio di idee è stato fruttuoso. Nessuno inventa niente da zero. Ma si raccolgono idee, si cerca di migliorarle adattandole alla realtà locale.

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