Il tribunale condanna la mamma manesca

Lo ha stabilito la Corte d'appello di Trento condannando a 6 mesi di reclusione una donna asiatica

Il genitore che picchia il figlio con sberle o con oggetti contundenti commette il reato di maltrattamenti in famiglia - e non di semplice abuso di mezzi di correzione - anche se le condotte violente sono poste in essere con una finalità correttiva ed educativa. Lo ha stabilito la Corte d'appello di Trento condannando a 6 mesi di reclusione una donna asiatica. Secondo i giudici è irrilevante la circostanza che il modo manesco di crescere la figlia era per la madre proprio della concezione culturale di cui la stessa era portatrice. La sentenza d'appello su questa particolare (e delicata) vicenda è rimbalzata sui siti web nazionali che si occupano di diritto.

L'imputata, sposata con un uomo italiano, era stata denunciata dal marito, una volta avviato l'iter della separazione, per le frequenti percosse e maltrattamenti cui aveva sottoposto la loro figlia di cinque anni, sin da quando la piccola aveva l'età di due anni. Nel procedimento di primo grado era emerso che la donna, quando la piccola «si comportava male» (come riferì la bambina allo psicoterapeuta incaricato dal giudice) colpiva abitualmente quest'ultima con utensili da cucina o le attorcigliava i lobi delle orecchie, o ancora la pizzicava in più punti del corpo. E ciò avveniva non solo in casa, ma anche presso la piscina e la scuola materna che frequentava la bambina. Pesante era anche il modo in cui la donna si approcciava alla piccola per rimproverarla con frasi del tipo: «ti butto già dal balcone», «ti porto in (omissis) e là fai la puttana».

La madre veniva quindi processata per maltrattamenti in famiglia, ma il giudice di primo grado la condannava la donna al meno grave delitto di abuso dei mezzi di correzione, in quanto la perizia svolta con incidente probatorio aveva escluso in capo alla piccola il sorgere di alcun disturbo postraumatico in ragione dagli atteggiamenti materni, «non potendo avere valore esimente la particolare concezione "pedagogica" - di cui la madre era portatrice - essendo stata cresciuta in (omissis) con identici metodi».

In appello però i giudici trentini hanno ritenuto che i molteplici episodi di violenza nei confronti della piccola integrassero il reato di maltrattamenti. Nel caso di specie, poi, è dimostrato che le percosse non erano episodiche, bensì costanti nel percorso di crescita ed educazione della piccola. E ciò nel nostro ordinamento non può essere tollerato: «Le finalità di correzione educazione del minore, infatti, non possono essere perseguite utilizzando un mezzo violento né diversi criteri possono essere adottati in relazione al particolare bagaglio socioculturale di cui è portatore l'agente».

E tali principi «non sono suscettibili - sottolineano i giudici - di deroghe di carattere soggettivo e non possono essere oggetto, da parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è quindi soggetto alla legge italiana, di valida eccezione di ignoranza scusabile».

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