Le bandiere alpine e quelle del festival

Le bandiere alpine e quelle del festival

di Paolo Ghezzi

D’accordo, sono tanti - forse troppi - i tricolori che tremano al vento di Trento. Gli alpini, abituati a rimboccarsi le maniche, non si sono risparmiati. La città è diventata biancorossoverde, anzi verdebiancorossa. Per chi si sente ancora discendente della Trento asburgica, può essere un piccolo shock cromatico-politico. Per i pacifisti, è un’orgia di patriottismo che stona con l’articolo 11 della Costituzione, quello con cui la Repubblica ripudia la guerra. Perché se è vero che gli alpini sono ormai da oltre settant’anni un grande movimento di pace e volontariato, sono pur sempre un corpo militare.
Anche gli intellettuali, gli snob, gli insofferenti, quelli che quando ci sono tre persone in coda in panetteria sbuffano subito «che folla, che città invivibile» sono pronti a una temporanea emigrazione: sono indeciso tra Kansas City, Kamchatka e Kamauz, ma al limite andrà bene pure Canzolino. Solo per non stare in città quando la città sarà invasa.

Ciò detto, è brutto che qualcuno strappi le bandiere, che alcuni tricolori siano stati divelti. Trento - che ospita il Dolomiti Pride, il Festival dell’economia, il Festival dello sport e la Settimana dell’Accoglienza - si dovrebbe dimostrare accogliente anche con il patriottismo. In questi giorni, poi, lo straripare di bandiere italiane è comunque temperato, armonizzato, felicemente confuso tra le mille bandiere di un Trento Festival che, arrivato all’età di 66 anni, dimostra ancora una confortante vitalità internazionale.

Una settimana prima degli alpini, il Festival ci proietta, come sempre, ben oltre le Alpi, su altre montagne, altri orizzonti, altre bandiere. Dalle sapienti vie del Giappone all’enclave degli armeni nell’Azerbaigian, dal maestro in Groenlandia allo scalatore a Maiorca, dalla prima palestra di arrampicata a Ramallah (Palestina) alle due famiglie che non si parlano nella taiga siberiana, dal silenzio del villaggio annegato di Curon (Resia) ai suoni della foresta amazzonica dell’Ecuador, dal dj ciclista canadese al club dei centenari di Sardegna, dall’ex miniera rumena alla comunità nativa messicana di Wirràrika: è un festival della scoperta e della sorpresa, dello spiazzamento geografico, della esplorazione di luoghi speciali per sconfiggere i luoghi comuni.

Ed è bello vedere, nel ponte tra la Liberazione e il Lavoro, i cinema pieni (e pieni di giovani).

Un festival, poi, che ci apre ad altri orizzonti anche dal punto di vista politico. «Campi di orzo sull’altro versante della montagna» di Tian Tsering (produzione britannica), per esempio, è un racconto semplice ma incisivo, emotivamente misurato e senza effetti speciali né sentimentali, eppure coinvolgente. Mostra la fatica, l’oppressione e il pericolo di vivere in Tibet, sotto il tallone della superpotenza cinese. Pema è una ragazza sedicenne che si vede strappare via per sempre, dalla polizia, l’amatissimo papà, attivista politico. Grazie all’amicizia con una monaca del vicino convento buddista, comincia a sognare un altro mondo, la fuga ad alta quota verso l’India, dall’altra parte della catena himalayana.

In questa terra di confine, terra di autonomia, è bello che un Festival di cinema dia voce a tante minoranze con le loro bandiere, prima di farsi festosamente «occupare» da un grande popolo che ha una sola bandiera. Città di incontri («ponte», l’aveva destinata Paolo VI, pensando all’incontro tra l’Italia cattolica e la Germania protestante) che ha superato perfino una storica inimicizia con gli ebrei, la Trento del Concilio potrebbe davvero proporsi come un luogo che accoglie, concilia e riconcilia.

Anche grazie allo schermo grande, che apre gli sguardi, allarga le curiosità, include mille storie di mille colori e bandiere, Trento potrebbe proporsi come città del pluralismo e del confronto interculturale, piccola capitale di una provincia bella e microscopica, che conta appena un millesimo della popolazione d’Europa ma che sa pensare in grande.

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