Lettere alla Merlin dalle schiave chiuse

Lettere alla Merlin dalle schiave chiuse

di Paolo Ghezzi

Il fascino poetico dei casini: le case chiuse solleticano i nostalgici. Ad ogni tornata elettorale c’è sempre qualcuno che ritira fuori il progetto di riaprire i bordelli, naturalmente con le migliori intenzioni: togliere il brutto spettacolo della prostituzione dalla strada. Visto che il 20 febbraio ricorre il 60° anniversario dell’approvazione della legge Merlin, che aboliva le botteghe del sesso regolamentate dallo Stato (scopo principale delle case chiuse: evitare la diffusione delle malattie veneree con visite mediche periodiche e armadietto dei disinfettanti!), i nostalgici e i romantici, che magari ricordano la storia allegra di Bocca di Rosa, potrebbero leggere le tristi, dure, accorate lettere che tante donne, da quelle case, scrivevano alla senatrice socialista Lina Merlin e che sono state raccolte in un libro, leggibile e scaricabile gratis sul sito internet della Fondazione Anna Kuliscioff.

Una donna della città di M., che ha fatto le magistrali, il 15 luglio 1949: «Si dice tante volte in giro che non siamo obbligate a entrare nella vita. Non è vero: siamo peggio che obbligate. Tante volte sono dei luridi sfruttatori che costringono a darsi al prossimo, tante volte è la fame... Ma sempre sono gli altri ad obbligarci a entrare in questi inferni, a ricevere 30-35 uomini al giorno, i vecchi sporcaccioni e i giovani infoiati, e quelli che gridano, e quelli che vogliono sentir parlare... gente che paga per averci, come bestie al mercato».

Un’altra: «Le padrone sfruttano in tutto. Metà, tremila di pensione il giorno, si paga la servitù, si fa tre quarti e un quinto loro e un quinto noi. Accordo con i così detti ruffiani. Vera schiavitù. Quello che impressiona che la polizia indaga mai. Viva la Merlin».

I proprietari si arricchiscono, le donne devono dividersi il magro guadagno sudato vendendo il loro corpo. Merlin non è la sognatrice di una società liberata dal sesso a pagamento (considera «insopprimibile il mercato dell’amore»): vuole «semplicemente», da socialista, abolire la schiavitù. «La lotta per l’abolizione della schiavitù legalizzata della donna diventa un passo importante per far conquistare alla donna italiana la coscienza della necessità della sua emancipazione».
Un’altra lettera angosciante: «Qui a B. le case chiudono alle due di notte, un giorno sì e l’altro no si fa il turno del mattino quindi verrebbe un orario lavorativo dalle 9 alle 13, dalle 14 alle 19, dalle 20 alle due, sarebbero 15 ore di lavoro estenuante sotto la luce accecante del neon, stordite dalla voce rauca della megera se non ci diamo da fare, prive di aria perché le finestre sono ermeticamente chiuse dato che sporgono nel centro... La mattina poi che siamo libere che si potrebbe uscire per goderci un’ora di sole, bisogna invece poltrire in letto perché uscire da sole è vietato, ordine del questore. Oppure uscire con la megera, ma queste tenutarie portano sulla fronte scritto il marchio del loro turpe mestiere ed allora si rinuncia all’ora di sole».

Una lettera da B., 1951: «Signora Deputatessa Merlin, Io ò saputo dalle mie compagne della legge che fà per noi prostitute. Io non me ne intendo; sono una povera donna che faceva la serva e sono delle campagne di C. e vorrei tornarci a fare la serva o la contadina non questo mestiere che mi fà schifo».

Con i loro errori di ortografia e la sintassi spesso scarrucolata, quelle donne testimoniano un incubo quotidiano. Schiave «fine pena mai», che non possono affrancarsi perché si devono portare dietro per sempre, col timbro dello Stato, il marchio del passato che impedirà loro - compiuti i 35 anni e finita l’estenuante attività - di rifarsi una vita e un lavoro «normali».

Anche la minoranza delle lettere contrarie alla legge Merlin finisce per portare argomenti per la chiusura delle case chiuse: «Troppa miseria verrebbe per la totale chiusura, e ce n’è già tanta, ma non continuate a fare lo sbaglio di riempire sempre più le loro casse sfruttando vergognosamente e ignobilmente chi dà tutta la sua fatica, tutto il suo sudore, il suo sangue, la sua vita. Non posso firmarmi perché sarebbe come denunciarmi e non campare più e ho famiglia alla quale io solo dò da vivere. Mi scusi e grazie confidando come nella Madonna di essere esaudita».

Merlin, che non scomoda la Madonna, sta dalla parte delle donne e contro l’ipocrisia degli uomini: «è questa nostra società che costruisce, sulla miseria e sul dolore altrui, le valvole di sfogo di una morale filistea, ed è ancora questa società che, dopo averle sfruttate, uccide legalmente, in nome di quella stessa morale, le sue vittime, che sarebbero, al dire degli ipocriti, necessarie a preservarla».

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