La voce necessaria del poeta feriale

La voce necessaria del poeta feriale

di Paolo Ghezzi

Essendo, notoriamente, la poesia inutile, improduttiva e impotente, è già un miracolo che qualcuno ne scriva ancora. Che qualcuno la pubblichi. Che, in una valle marginale del Trentino, qualcuno scriva e pubblichi dicendo di sé: «Nato negli anni Cinquanta del Novecento in Trentino in una casa diventata successivamente distribuzione di benzina e poi un parcheggio. Ancora vive: di sogni».

Non sempre è consigliabile, vivere di sogni. Diciamo che dipende dai sogni. Di certo, è indispensabile vivere di parole, perché senza esse non si può dire se stessi e pensare gli altri intorno a noi. Così il mocheno Claudio Morelli, in un librino azzurro dai bordi arrotondati intitolato «Io, di molti» (160 pagine, pubblicate con encomiabile cura artigianale da Publistampa), non si permette un lusso, pubblicando le proprie parole, ma in realtà compie l’esercizio essenziale all’esistenza: (si) esprime.

Pienamente consapevole del lusso necessario, come dice «Dell’inutilità della poesia»: «Sembra inutile la poesia/ perché è gratuita/ non produce e non ricava/ solo di se stessa/ si nutre e si grava». Eppure, è necessaria perché produce la fragilità della bellezza: «è una magia che fa vivere/ ciò che sembra ed appare/ e sembrare vero ciò che non pare». Claudio Morelli non se la tira da poeta acrobatico-sperimentale, non segue le mode, non si vergogna di restare fedele ai classici antichi e contemporanei: Dante, Garcia Lorca, Neruda, Saba, Palazzeschi, Szymborska, Majakovskij, Rimbaud, Mandelstam, Apollinaire e Montale sono coloro che cita, chiamandoli per nome come compagni di scuola o di lotta, nell’introduzione in cui modesto confessa «la mia poesia, dimessa e feriale, nasce dalla loro assidua frequentazione, dal loro esempio e dalla loro luce».

Non si vergogna, Morelli, di farsi capire dai propri lettori, consapevole che «corre come su un filo di una lama sottile la poesia in equilibrio precario fra il sublime e il ridicolo».
Non ha paura di mostrarsi nudo, ferito, dalla vita e dalla donna, unica in tutte le donne: Nausicaa, Cleopatra, «Beatrice che apre divina/ del paradiso la porta», «Anna dalla passione/ per Vronskij travolta», la Madonna Annunciata di Antonello, Nefertiti, la ragazza dall’orecchino di perla... e perfino la Lucia manzoniana, sì dimesso e feriale è il nostro. E all’unica e a tutte grida: «Ho accordato la cetra/ per intenerire il tuo cuore di pietra».
Invano, inutilmente, s’intende.
Poi insegue i fiumi, a partire dall’umile Fersina.

E le città, come le sette dei chakra induisti: Roma, Velehrad, Delfi, La Mecca, Delhi, il Wawel di Cracovia e naturalmente Yerushalheim: «centro di tutto e del mondo/ accetta anche il mio pellegrinare/ lieve peso che ondeggia/ sull’ultimo strato a celare/ la cetra di Davide/ e il sedimento di un mare».

C’è la storia e c’è la cronaca, in «Io, di molti» perché Morelli non si astrae e non si isola: invece partecipa, da solitario, al dolore del mondo, come le Torri gemelle del 2011 e il Vajont del 1963, di cui canta con voce pura una piccola vittima: «Ancora dormi serena/ Marinella bambina recisa/ le tue parole sul macchiato quaderno/ vivere ti fanno per sempre in eterno».
Orizzonti fascinosi, lontani dalla valle e che pure, misteriosamente, alla valle di partenza rimandano. Perché alla fine, tutti noi, forse cerchiamo solo il principio. E mentre si appressa il buio del tramonto, andiamo a ritroso a cercare il buio del ventre da cui siamo nati.

Per Claudio, «è l’impetuosa umile Fersina/ la sua acqua mi attraversa le vene/ è lei il mio sangue scarlatto/ è lei che mi ha plasmato e mi ha fatto».
E l’ha fatto tenace e visionario: «Testardo continuo a raccogliere stelle».

Questo deve e sa fare, anche il poeta feriale.

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