Grande Guerra: una storia a 100 anni dalla fine/3

Grande Guerra: una storia a 100 anni dalla fine/3

di Luigi Sardi

È di lunedì 7 ottobre 1918 la notizia – pubblicata dal Corriere della Sera – che Germana, Austria-Ungheria e Turchia hanno deciso di rivolgersi al Presidente degli Stati Uniti con una proposta di armistizio. L’annuncio sbalordisce gli italiani che si stavano preparando ad affrontare un altro inverno di guerra, di fame, di freddo, insomma di enormi patimenti anche se, dopo i giorni di Caporetto, francesi e inglesi avevano intensificato l’invio nel Regno di derrate, carbone, medicinali, soprattutto armi.

La notizia, ripresa da tutti i giornali, era arrivata anche nelle trincee più avanzate e aveva allarmato il Comando Supremo del Regio Esercito: i generali avevano capito che l’annuncio delle trattative per la pace avrebbe potuto, se non fermare le battaglie, diminuire lo spirito combattivo dei soldati. Insomma, la parola pace era la più temuta dai vertici dell’Esercito; già avevano cercato di nascondere il famoso appello di Benedetto XV che aveva bollato la guerra come «inutile strage», adesso temevano che una tregua avrebbe colto le armate italiane ben lontane dagli obiettivi risorgimentali: la conquista di Trento e di Trieste ne avrebbe riscattato l’enorme sconfitta subita a Caporetto. E c’era un altro motivo di preoccupazione. Nei comandi degli eserciti alleati, soprattutto in quello italiano che temeva la propaganda socialista, era ben presente cosa era accaduto in Russia dove all’ombra delle bandiere rosse i soldati avevano abbandonato in armi le trincee per marciare su Pietrogrado e rovesciare il governo dello zar. Poteva accadere anche in Italia.

Gli uomini del controspionaggio avevano capito che i soldati fuggiti da Caporetto, convinti che la guerra fosse finita, si erano ritirati disarmati; che nella massa dei combattenti cresceva il numero dei «socialisti disfattisti» arginati dalla disciplina e dagli Arditi che, addestrati a combattere con ferocia, avrebbero arginato nel sangue ogni moto rivoluzionario. E c’erano le donne nelle fabbriche, negli ospedali da campo, nelle stazioni ferroviarie che, sostituendo i richiamati, per la prima volta avevano raggiunto un ruolo importante nella vita civile ed erano le più forti propagandiste dell’azione pacifista. Si legge nel diario di guerra del maggiore Cesare Pettorelli Lalatta, l’ideatore nel settembre del 1917 del famoso e fallito colpo di mano a Carzano in Valsugana: «La propaganda bolscevica fra le nostre truppe, a mezzo di manifestini lanciati dagli aeroplani austriaci, assume un’intensità che deve davvero cominciare a preoccupare».

E Cesare Pettorelli Lalatta era con il maggiore Tullio Marchetti di Bolbeno il personaggio di maggior peso nella propaganda della guerra all’Austria. Da ricordare che i due ufficiali avevano trasferito Cesare Battisti a Verona, a Forte San Procolo con il compito di interrogare prigionieri e disertori austriaci, soprattutto per togliere il leader degli irredentisti dai pericoli della prima linea ma che dopo la Spedizione Punitiva lo lasciarono tornare in trincea forse – è un’ipotesi – preoccupati delle possibili accuse al Comando Supremo rimasto inerte di fronte agli allarmi sull’imminente offensiva austriaca. E c’è un altro motivo di forte inquietudine. A Pietrogrado, i soviet avevano reso noti i testi degli accordi di Londra, che nell’aprile del 1915 avevano indotto il Regno d’Italia a rompere il trentennale trattato con Berlino e Vienna. Inglesi e francesi avevano assicurato all’Italia il Tirolo meridionale fino al Brennero, Trieste con il suo porto e le coste adriatiche e così gli italiani che avevano affrontato la guerra con spirito risorgimentale si accorgono che a guerra finita avranno, come sudditi, popoli di lingua slava e tedesca.

Ecco il confine al Brennero che fu una sorpresa almeno per gli italiani più colti. Prima dell’avvento del fascismo venne pubblicato uno stralcio dell’intervento – era il 1901 – di Cesare Battisti tenuto di fronte a studenti e operai di Levico. «Noi potremmo davvero dimostrare che la lingua nostra [italiana] si spingeva un tempo al di là di Bolzano, fino a Merano. Eppure di fronte alla realtà riterremo stoltezza il vantar diritti su Bolzano e Merano». Poi, era il dicembre del 1914, mentre Battisti stava facendo il suo viaggio di propaganda attraverso l’Italia per portare gli italiani alla guerra contro l’Austria, ricevette una lettera da Gaetano Salvemini piena di dubbi sulla volontà e necessità di spingere le pretese territoriali del Regno oltre Salorno. Una lettera divisa in sintetici capitoli. Al numero 6 la frase: «Credi che la necessità militare del Brennero sia tale dal doverci far affrontare le noie e i pericoli dell’irredentismo tedesco?».

Gli rispose Battisti: «Ho dei dubbi su un confine più a nord del confine napoleonico (nella valle dell’Adige tra Bolzano e Merano; nella valle dell’Isarco tra Bolzano e Bressanone, ndr). Pubblicamente non gli espongo perché non tocca a me, irredento, toglier valore al programma massimo degli irredenti».  Salvemini pubblicò questa parte di risposa solo nel 1919 e questo carteggio ebbe una buona pubblicità solo nel 2006 quando venne pubblicato un pregevole lavoro su Battisti magistralmente scritto da Claus Gatterer.

È il 15 ottobre di 100 anni fa. A Vienna si era capito che la guerra era alla fine, che gli imperi d’Austria e Germania erano alla vigilia della disfatta. A Trento, «Il Risveglio Austriaco» con il titolo «Il Tirolo ai tirolesi» scrive: «Il Tirolo non può, non deve essere distrutto… sarebbe una disgrazia per le popolazioni del Tirolo, ma anche per l’Europa, se il Tirolo italiano venisse smembrato a favore dell’Italia. E’ della più grande importanza che l’Italia non arrivi al Brennero» e intanto ad Abano il generale Armando Diaz che aveva sostituito Luigi Cadorna dopo il disastro di Caporetto, riceve Tullio Marchetti che annota nelle sue memorie: «Se l’Italia non darà il colpo di grazia all’Austria, noi non saremo atati all’altezza della missione storica che la fortuna ci sta offrendo. Occorre un urto. Anche se il risultato militare non sarà grandioso, il risultato politico sarà immenso. La nostra offensiva avrà grandi ripercussioni sulla massa combattente dell’Esercito austriaco e sullo spirito delle popolazioni sfinite, sfiduciate, in fermento».

Così si cominciò a preparare l’ultimo assalto. L’ultima strage. Per arrivare a Trento prima della pace.

(3 - Continua)

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