Quel maggio «radioso» per gli italiani

Quel maggio «radioso» per gli italiani

di Luigi Sardi

Alla vigilia di quel maggio, radioso per gli italiani ma tragico per il Trentino, i lavoratori dei campi, i braccianti, i cattolici, i socialisti, le donne erano, per diversi motivi ma con eguale intensità, contro la guerra e per la neutralità.

«Le masse», come si scriveva in quell’epoca, stavano ancora soffrendo le conseguenze della guerra in Libia cominciata nel 1911 per la conquista della «terra promessa», la famosa «quarta sponda», impresa sbandierata come facile, per niente costosa, enormemente produttiva, necessarissima all’Italia ma, nella primavera del 1915, ancora in corso nonostante gli annunci di nuove e clamorose vittorie.

Si era dato, e giustamente, grande risalto al volo del capitano Cesare Piazza (ore 6,10 del 23 ottobre 1911) che decollato dalla spiaggia di Tripoli con un Blériot da 50 cavalli, aveva compiuto quella che viene considerata la prima missione di guerra nella storia dell’aviazione, ma si era taciuta la sconfitta nell’ oasi di Sciara Sciat dove i soldati italiani vennero decimati e i feriti trucemente massacrati.

Quando nel 1912 venne pubblicato l’«Album Ricordo» intitolato «L’Italia e la conquista libica», l’impresa era già un enorme dolore per il numero dei morti, dei mutilati, dei feriti, degli ammalati di colera e un disastro economico per via delle colossali spese che stavano mettendo in ginocchio la Nazione. Le fotografie ci mostrano immagini di assoluta miseria, di bambine arabe di 12 anni – così recitano le didascalie – messe in posa seminude per il gaudio dei maschi italiani, di trincee scavate alla buona alla periferia di Tripoli e di accampamenti di ascari con i meharisti acquartierati alla meglio fra capre, asini, cammelli e di colonne di Bersaglieri in marcia nel nulla del deserto.

Il socialista Andrea Costa aveva rispolverato lo slogan «né un uomo né un soldo per l’Eritrea» che era stata la prima meta di un’Italia smaniosa di diventare potenza coloniale, invitando i socialisti a gridarlo di nuovo «in faccia ai tristi consiglieri che fan ressa attorno al Governo per indurlo alla spedizione. Prima della Cirenaica, o disgraziati, che farneticate di potenza nazionale, c’è la Calabria, c’è la Sardegna, due terzi d’Italia [in miseria]».

Contro quell’impresa ci fu una protesta. Ci fu uno sciopero. Tutto si concluse con un sostanziale fallimento che solo nel Forlivese aveva assunto aspetti drammatici con il sabotaggio della tramvia Forlì-Mendola, il danneggiamento di alcune linee telegrafiche e il tentativo di impedire ai richiamati di presentarsi al distretto di leva. Alla testa dei manifestanti Benito Mussolini che quattro anni dopo si schiererà per l’entrata in guerra dell’Italia.

Ma ecco nell’album che mostra le immagini della conquista libica, enfatizzare «il fervido slancio onde tutta la nazione ha salutato e auspicato le migliori fortune alla impresa libica, testimonianza della rinnovata vita del nostro Paese». Si voleva sottolineare la concordia politica del Paese: è un autentico falso politico e giornalistico destinato a glorificare la spedizione che, appunto nel 1911, portò l’Italia di Giovanni Giolitti ad occupare Tripoli e, qua e là, tratti del litorale della Tripolitania e della Cirenaica fino alla tragica ritirata delle truppe italiane nella primavera del 1915. E narrata la storia della guerra contro la Turchia, della Croce contro la Mezzaluna, della colossale campagna di propaganda che faceva leva su immaginarie risorse della «terra promessa», divenuta subito «la quarta sponda» suscitando un delirio collettivo che travolse uomini di cultura, politici, economisti, sindacalisti, sacerdoti e militari. Il Governo confezionò un carteggio per dimostrare che le risorse naturali della Libia «sono tali da compensare qualsiasi spesa per la conquista», che gli arabi libici «insofferenti del dominio turco, attendono l’arrivo degli italiani come una liberazione».

Anche Cesare Battisti, alla vigilia di quel maggio «radioso», scrisse che i trentini maledicevano l’Austria, facendo capire che aspettavano con trepidazione che l’Italia dichiarasse guerra all’Impero e l’arrivo degli italiani come liberatori. Ma per restare ai tempi della spedizione in Libia, resa celebre dalla canzone «Tripoli, bel suol d’amore», il citato documento del Governo rilanciato da tutti i giornali, dimostra come gli avvenimenti e la storia sono piegati a interessi ideologici.

Il citato documento venne confutato solo dal giornalista e filosofo Gaetano Salvemini. Dimostrerà che quello scritto «è un falso dalla prima all’ultima parola», che «la Tripolitania è uno dei paesi più poveri del mondo» e che le risorse per quella guerra si dovevano impiegare nel Mezzogiorno alle prese con il colera, la fame, l’isolamento, l’analfabetismo, la malaria, il latifondo e la superstizione e dove in certi villaggi della Sardegna «le case sono vere tane, dove si lavora, si mangia, si pipa, si dorme, si fanno i propri comodi unitamente a quelli dei gatti, dei cani, del pollame».

Sardegna, Sicilia, Basilicata, Calabria: a Verbicaro, nel Cosentino, nell’agosto del 1911, in seguito ad una epidemia di colera, incolpando il sindaco di aver sparso una «polveretta» velenosa nella fontana dal paese, la popolazione aveva assalito il municipio, ucciso il sindaco, il segretario comunale e un impiegato poi si era data alla macchia al sopraggiungere delle forze dell’ordine. Mancava un mese allo sbarco dei soldati italiani a Tripoli.

Insomma l’Italia che celebrava in cinquantenario dell’Unità, che si preparava a conquistare la Libia, si trovava di fonte ad una realtà nuova, sconosciuta, dove si credeva che il colera fosse conseguenza di untori di manzoniana memoria con i giornali – quelli che volevano liberare la Libia dal giogo di turchi – scrivevano a caratteri di scatola «La popolazione di Verbicaro fa strage delle autorità» scoprendo l’analfabetismo, la miseria, il degrado mentre Filippo Tommaso Marinetti, Gabriele D’Annunzio, Pascoli e Ada Negri facevano a gara per esaltare l’impresa d’oltremare con odi forse lautamente pagate ma non tutte di facile comprensione.

Si scrisse che «affiorò, emerse, straripò l’enfasi oratoria dei comizianti, la prosa amplificativa dei giornali» e una parte del Paese «fu preda dell’esaltazione del fanatismo». Condizioni ben presenti nell’autunno del 1914 quando nel Regno serpeggiò la retorica di Marinetti e D’Annunzio, il verbo del Corriere della Sera, di Benito Mussolini e di Cesare Battisti che contribuirono a portare l’Italia nella tragedia della guerra. Che fu una strage ma venne chiamata Grande.

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