Caso Moro: la domanda più assordante

Caso Moro: la domanda più assordante

di Luigi Sardi

Dalla “prigione del popolo”, la lettera di Moro a Benigno Zaccagnini, lo “Zac – Zac” delle folle democristiane di quasi mezzo secolo fa, è la sintesi di una tragedia che si sta compiendo. “Siamo quasi all’ora zero: mancano più secondi che minuti, siamo al momento dell’eccidio”. Oggi sembra impossibile che fra il marzo e il maggio del 1978, nell’Italia del benessere dove quasi ogni famiglia aveva l’automobile, quasi tutte il frigorifero, il telefono, la lavatrice, ovviamente il televisore anche se comperato a rate, si era costretti a vivere nella sciagurata morsa del terrorismo politico crescita a dismisura dopo la strage di Piazza Fontana del dicembre del 1969.

L’arcitaliano Giorgio Bocca aveva scritto, raccontando la guerra partigiana “la pietà è morta”; Moro scrisse: “Dev’essere chiaro che, politicamente, il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva, ma dello scambio di alcuni prigionieri di guerra, o guerriglia come si vuole, come si pratica dove si fa la guerra, dove si scambia non solo per obiettive ragioni umanitarie, ma per la salvezza della vita umana innocente”. E ancora: “In questo modo si reintroduce la pena di morte che un Paese civile come il nostro ha escluso sin dal Beccaria ed espunto nel dopoguerra dal codice penale come primo segno di autentica democratizzazione”. Poi il grido di dolore: “Zaccagnini, sei eletto dal Congresso. Nessuno ti può sindacare. La tua parola è decisiva. Non essere incerto, pencolante, acquiescente. Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza”.

All’indomani della strage di via Fani quasi tutti i direttori dei giornali invocando la mobilitazione dell’Esercito e sull’onda delle dichiarazioni del giornalista e senatore Mario Tedeschi del Movimento Sociale Italiano che chiedeva il ripristino della pena di morte appellandosi al codice militare, avevano accarezzato, se non invocato, quella tragica scelta, relegata il primo gennaio del 1948 nella soffitta della storia nazionale, per i brigatisti assassini. Solo Gianni Faustini, direttore del giornale “Alto Adige”, aveva scritto un fondo di grande equilibrio: “Le parole sono vane ma il più grave episodio di guerra civile dalla Liberazione ad oggi richiede che sentimenti e ragionamenti si affidino pur sempre alla parola, alla possibilità di dialogo”.

Era appena arrivato, attraverso un documento di 25 righe senza titolo e senza firma pubblicato dal “Popolo”, l’organo ufficiale della Democrazia Cristiana, il rifiuto della Dc a trattare con i terroristi. Era quello il documento più drammatico tra i tanti prodotti dal partito dal giorno della sua fondazione: pur essendo in gioco la vita di Moro si era stabilito che non era possibile accettare il ricatto delle Brigate Rosse. Un dilemma politico e un dramma personale; Zaccagnini era da sempre amico di Moro e anche i più giovani – e fra di loro il giornalista e parlamentare trentino Luciano Azzolini – erano legati al presidente rapito da un fortissimo sentimento di stima, rispetto, amicizia. Aveva tentato di rompere il fronte del no Bettino Craxi, il segretario del Psi, il leader nascente della politica italiana. Aveva deciso di cercare un’alternativa proponendo a Zaccagnini l’ipotesi di graziare tre terroristi non condannati per reati di sangue e di eliminare le carceri speciali pur di riavere Moro vivo.

È fra la fine di aprile e i primi giorni di maggio che diventa intenso il tentativo socialista di arrivare ad una mediazione. Lanfranco Pace a Franco Piperno, già militanti di Potere operaio, si incontrano più volte con due brigatisti, Adriana Faranda e Valerio Morucci, “postini” delle Br, cioè quei personaggi che, ricevuti gli scritti di Moro e i messaggi delle Br, li collocavano nei punti prestabiliti e poi telefonavano ai giornali per farli trovare. Molti anni dopo il senatore Giorgio Postal, che agli inizi degli anni Sessanta era stato segretario della Dc trentina, scriverà sul giornale l’Adige: “C’è un interrogativo che, quando penso al caso Moro, mi turba profondamente. E’ noto oggi che il Psi di Craxi e Claudio Signorile tentò di salvare la vita di Moro anche attraverso i massimi esponenti Autonomia operaia” appunto Piperno e Pace. “Ed è altrettanto noto che questi due ebbero, durante il periodo del sequestro, un certo numero di contatti e di colloqui con Morucci e Faranda. Ebbene non è terribile pensare che una semplice segnalazione agli organi di sicurezza avrebbe potuto portare all’individuazione di Morucci o di Faranda e, forse, alla scoperta del covo dove Moro era tenuto prigioniero”?

È la domanda più assordante su alcuni misteri, invero molti presunti, che aleggiano su quei 55 giorni. Di certo solo Postal focalizza l’attenzione sugli incontri fra Piperno e Pace con Morucci e Faranda. Forse i due “postini” non sono mai entrati nell’appartamento dove era rinchiuso Moro. Ma qualcuno che era in quella casa incontrò uno o l’altro dei fiancheggiatori per consegnare lettere e documenti: sarebbe bastato un contatto e, forse, Moro poteva essere salvato.

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