«Il prossimo inverno non più in trincea»

«Il prossimo inverno non più in trincea»

di Luigi Sardi

Era il primo agosto del Diciassette quando Papa Benedetto XV scriveva quella invocazione alla pace divenuta urgente per salvare l’Europa «così gloriosa e fiorente, quasi travolta da una follia universale» che stava correndo verso «un vero e proprio suicidio».

L’appello per fermare l’inutile strage aveva fatto infuriare gli ufficiali del Comando supremo del Regio Esercito che avevano tentato di proibire la divulgazione del messaggio pubblicato a tutta pagina da «L’Osservatore Romano» con il titolo «Una nota del Sommo Pontefice ai Capi dei popoli belligeranti».

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Nonostante divieti e censure, molti parroci l’avevano raccontato dai pulpiti ai fedeli. Che erano soprattutto donne. E moltissime di loro vestivano l’abito nero del lutto.

Finite già nell’estate del 1915 le chiassose manifestazioni degli interventisti, il popolo si era trovato di fonte ad urgenze crescenti: la scarsità di generi alimentari, il razionamento di carbone, petrolio, medicine e il conflitto era diventato «la maledetta guerra». Le prime rivolte «sediziose» erano cominciate nell’estate del 1917 quando era cresciuto in maniera spaventosa il numero dei morti, dei mutilati, dei feriti, dei dispersi, conseguenza delle terribili battaglie sul Carso e sugli Altipiani e i prezzi dei pochi generi alimentari disponibili erano aumentati enormemente portando la fame in moltissime case.

A Brescia, Milano, Torino, Como gli operai che lavoravano con ritmi sempre più frenatici nelle fabbriche di armi e munizioni, avevano deciso di scendere in piazza e sui muri delle fabbriche erano comparse la scritta «Viva Lenin».

I cortei avevano allarmato i presidi militari che avevano schierato la truppa e allora alla testa di quella massa di lavoratori che gridavano pane e pace, qua e là sventolando bandiere rosse, erano state spinte le donne più giovani che, di fronte ai soldati, alzavano le gonne. Non per dileggio o sfida, ma come gesto di fratellanza, di pace, di speranza. Molti militari si rifiutarono di sparare e fra le truppe inviate a sedare gli incidenti ci fu qualcosa di molto vicino all’ammutinamento. I soldati di leva vennero consegnati nelle caserme, sostituiti nelle piazze dai Carabinieri Reali. Che spararono e uccisero. Soprattutto a Torino, Milano, Como e Bologna.

Intanto in molte città, promossa dai socialisti, era cominciata una campagna ovviamente clandestina, che invitava a gettare le armi, a fraternizzare coi fratelli d’Oltralpe.

L’Internazionale socialista era capitolata nell’agosto del Quattordici ma gli uomini della sinistra, soprattutto quelli che erano andati al fronte, avevano capito che la guerra di tutti i popoli era vasta ed orribile, oltre ogni memoria di stragi nella storia europea. Come era scritto in un volantino di propaganda distribuito a Venezia nella zona dell’Arsenale e citato in una sentenza pronunciata da un tribunale di quella città. Poi era arrivata la battaglia della Bainsizza.

Secondo il pensiero del comandante del Regio Esercito Luigi Cadorna doveva sfondare il fronte austriaco e raggiungere Trieste: fu un bagno di sangue, una nuova strage e fra i soldati si riprese a canticchiare «il general Cadorna ha scritto alla Regina, se vuoi veder Trieste, guardala in cartolina». Alla vigilia di quello scontro, una delegazione dei Soviet era stata ricevuta con tutti gli onori a Torino e subito gli operai scesero in sciopero.

L’America era entrata in guerra, ma era ancora molto lontana; la guerra dei sottomarini tedeschi aveva raggiunto l’apice, la Russia usciva dal conflitto, la rivoluzione d’Ottobre era alle porte, Austria e Germania potevano cominciare a ritirare truppe dall’Est per schierarle sul fronte Occidentale e su quello italiano dove soffiava un vento di protesta che non fu mai rivolta.

Però la tremenda battaglia scatenata sull’aspra pietraia della Bainsizza aveva spaventato gli austriaci. Compresero che un’altra spallata avrebbe infranto le difese sconvolte dai terrificanti bombardamenti delle artiglierie. E chiesero aiuto ai tedeschi mentre alcuni dirigibili lanciavano sui centri del nord Italia, volantini a documentare che nelle città, per domare le proteste, era stato proclamato lo stato d’assedio, riportando anche il discorso pronunciato il 12 luglio alla Camera dal giornalista e socialista Claudio Treves con quel «Signori del mio governo e di tutti i governi d’Europa, udite la voce che sale da tutte le trincee… essa detta l’ultimatum della vita alla morte: il prossimo inverno non più in trincea» che per i militaristi divenne lo slogan del disfattismo e del tradimento ma per i soldati al fronte, una speranza.

Il 2 agosto del 1917 il Comando Supremo dell’esercito austriaco inviava una nota con il timbro riservatissimo a tutti gli ufficiali intitolata «Stanchezza della guerra» che arrivò nelle mani dei servizi segreti del Regio Esercito mentre il principe Sisto di Borbone, fratello dell’imperatrice d’Austria e uomo di fiducia dell’Imperatore Carlo continuava la sua missione per cercare una via verso la pace incontrando, segretamente quanto inutilmente, il presidente di Francia Raymond Poincaré. In Italia, di fronte alla enormità delle stragi, aveva ripreso forza la voce di neutralisti, clericali, socialisti e allora venne mobilitata la magica matita di Achille Beltrame che in un paginone de La Domenica del Corriere disegnò l’immagine di una popolana che accompagna il figlio, con il moschetto bene in vista, alla tradotta e la didascalia recita: «Parti tranquillo, figlio mio. Non piango. Piangerei se ti sapessi vile».

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Proprio dopo la battaglia della Bainsizza i Carabinieri Reali che nelle grandi città avevano il compito di consegnare alle famiglie dei Caduti la lettera con la tragica notizia, venivano presi a sassate. Allora quell’incombenza venne assunta dai parroci che assieme alle parole di conforto portavano, qualche volta, speranze di pace dilatando il partito di quanti, appreso il messaggio del Pontefice, invocavano la fine della guerra.

I preti da una parte, la propaganda dei partigiani dei Soviet dall’altra, contagiarono le truppe o meglio quei soldati in licenza che venendo in contatto con la popolazione civile e con le loro famiglie trovavano le stesse privazioni sopportate al fronte. Mancanza di viveri, di vestiario, di combustibile, di armi, di equipaggiamento bellico giustificarono quel mormorio, divenuto malcontento, sedizione, disfattismo riassunto nello slogan «il prossimo anno non un uomo in trincea».
 
Dopo le repressioni degli scioperi,l’immagine dei Carabinieri subì un altro duro colpo quando si apprese che sul Piave, al tragico Ponte de Priula, fucilavano i soldati in ritirata. Per il fronte interno era necessario tenere alta l’immagine di quei soldati «usi morir tacendo» e Beltrame sulla Domenica disegnò due uomini dell’Arma colpire il tenente generale prussiano Albert von Berrer comandante del LI corpo d’amata speciale mentre entrava a Udine.

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In realtà l’ufficiale che a differenza di Cadorna, incollato nel suo ufficio da dove dirigeva la guerra a furia di circolari, era fra i suoi soldati in prima linea, venne ucciso dal bersagliere Giuseppe Morini di Civitavecchia. Insomma, un’altra veniale bugia della propaganda.

Cresceva la piaga dell’accaparramento di generi alimentari, dei profitti di taluni industriali, del disagio denunciato da molti parlamentari di fronte ad un Governo «più preoccupato di tener tranquilli i socialisti che di infondere maggior vigore nella condotta della guerra e incapace di controllare l’operato di Cadorna». Tutto sfociò in un aspro dibattito parlamentare. Era mercoledì 24 ottobre. Il Corriere della Sera usciva con un titolo a tre colonne «I tedeschi compaiono sulla fronte italiana» annunciando che le artiglierie nemiche avevano iniziato «con incredibile violenza» il bombardamento delle linee italiane dell’Isonzo.

Mentre quel disastro di enormi proporzioni si abbatteva a Caporetto, il Governo presieduto da Paolo Boselli si dimetteva. L’Italia piombava nel caos.

(2/Continua)


La prima parte

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