Quando la Francia pagò gli interventisti italiani

Quando la Francia pagò gli interventisti italiani

di Luigi Sardi

Benito Mussolini venne pagato dai francesi - un milione di lire - per fondare il giornale interventista «Il Popolo d’Italia». E i francesi pagarono molti italiani votati alla causa interventista. Nell’autunno del 1914 il futuro Duce del fascismo aveva lasciato la direzione del giornale «Avanti!», l’organo ufficiale dei socialisti che erano per la neutralità e per la pace ad ogni costo. «Né un uomo né un soldo per questa guerra» e «se le teste coronate vogliono la mobilitazione, ci sarà la rivoluzione». Non aveva dubbi Mussolini quando dalle colonne dell’«Avanti!» scandiva la neutralità dell’Italia di fronte alla guerra che era già un’enorme strage, puntualmente e ampiamente documentata dai giornali italiani.

Nel 1909 era stato giornalista a Trento nella redazione del «Popolo» di Cesare Battisti e di Ernesta Bittanti e aveva capito che i trentini erano devoti alla chiesa, fedele all’Imperatore Francesco Giuseppe e salvo una ristretta, nobilissima minoranza di socialisti e uomini del libero pensiero, avevano scarsissima voglia di venire risucchiati dal Regno d’Italia. Lo disse, lo scrisse nei suoi fondi infuocati quanto eccellenti e finì per scontrarsi con il collega giornalista che, lasciato Trento allo scoppio della guerra, percorreva le città del Regno per convincere gli italiani a fare la guerra all’Austria nel nome di Trento e Trieste.

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Lo scontro è del 14 settembre 1914 quando l’«Avanti!» pubblicava un articolo di Battisti con la nota «non possiamo negare ospitalità a questa lettera che un compagno e amico carissimo di Trento, attualmente profugo in Italia, ci ha mandato per rettificare un’affermazione contenuta in una delle nostre note da Roma». Nell’articolo, Mussolini aveva svalutato l’argomento irredentista mettendo in dubbio l’italianità dei trentini a la volontà di annessione all’Italia e Battisti aveva scritto: «Ma oggi dai campi insanguinati della Galizia e della Bosnia, dalle città e dalle valli e da ogni luogo ove siano trentini, si guarda fremendo all’Italia. E lo sdegnavano le notizie che falsamente attribuivano ai trentini sentimenti ed azioni anti italiani». Questo si legge nel libro «Con Cesare Battisti attraverso l’Italia», scritto da Ernesta Bittanti nel 1938.

L’invasione del Belgio neutrale da parte della Germania aveva scatenato proteste anche fra i socialisti mentre si radicava una convinzione: bisognava armarsi e combattere contro gli imperi del militarismo. Lo scontro era aspro e il 21 settembre per un manifesto firmato «La Direzione del Partito Socialista e il Gruppo Parlamentare» in favore della neutralità, aveva visto, in dissenso al documento, le dimissioni del deputato Giuseppe Romualdi. 

In quel clima che diventava sempre più infuocato, il partito della guerra vedeva il 20 ottobre l’abbandono di Benito Mussolini dalla direzione dell’ «Avanti!» per fondare il 15 novembre «Il Popolo d’Italia» che si presentava col “grido che è una parola paurosa e fascinatrice: guerra!” ricevendo immediatamente il plauso di Battisti con un biglietto nel quale si legge: «La nostra comunanza di idee fu così forte nel tempo in cui fosti mio compagno nell’azione politica a Trento, ed è ora così evidente in questo supremo momento della vita e italiana e del mondo».   
Ma perché Mussolini da neutralista, da pacifista diventa interventista mettendo, nel chiedere la guerra all’Austria, la stessa forza giornalistica impiegata fino a pochi giorni prima nell’invocare la pace?
Il 18 novembre del 1914, appena tre giorni dopo l’uscita nelle edicole del nuovo giornale, il quotidiano elvetico «Neue Zürcher Zeitung» e il «Wolff Bureau» tedesco, diffusero la notizia che Mussolini aveva ricevuto, per fondare il nuovo quotidiano, danaro dalla Francia. Mussolini smentì sdegnato. Ma è certo che in quel periodo i francesi pagavano. Parigi voleva l’intervento dell’Italia nella guerra, voleva che finisse il passaggio di merci destinate alla Germania attraverso il valico di Chiasso e la Svizzera, soprattutto voleva l’apertura di un nuovo fronte, certamente secondario come in effetti fu quello italiano, ma capace di strangolare gli Imperi Centrali.

Negli anni successivi si stabilì, però la questione non suscitò scandalo, che molti uomini politici italiani ricevettero sovvenzioni dalla Francia per perorare la causa dell’intervento dell’Italia nella guerra. Chi furono quegli uomini che per denaro spinsero l’Italia nell’Inutile Strage? Certamente la Francia finanziò la corrente e i tribuni interventisti e un aspetto interessante si trova negli atti del XLI Congresso di Storia del Risorgimento italiano che, voluto e organizzato dal prof. Umberto Corsini considerato fra i maggiori storici dell’Italia moderna, si tenne a Trento dal 9 al 13 ottobre 1963 nel Castello del Buoncosiglio. 

Convegno straordinario perché molti eminenti storici italiani, austriaci e francesi, che convennero nell’ assemblea mai pubblicizzata perché quelli furono i giorni della tragedia del Vajont, avevano combattuto nella Grande Guerra. Nessuno meglio di loro era in grado di ricostruire minuziosamente tutti i capitoli della tragedia.
In particolare Georges Dethan, uno dei sovrintendenti dell’Archivio del ministero degli Esteri di Francia, rivelò come dal diario, inedito, di Robert de Billy, consigliere dell’ambasciata francese a Roma, risulti che Mussolini andò a Palazzo Farnese e si rivolse all’ambasciatore Camille Barrère, un uomo che le fotografie ci mostrano con la tuba, un soprabito nero, i grandi baffi candidi, l’aria severa.

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Ma ecco il testo dell’intervento di Dethan: «Gli archivi del Ministero degli Affari Esteri hanno recentemente acquisito un documento importante sulla questione dell’entrata in guerra dell’Italia. Si tratta delle memorie, manoscritte, del conte Robert de Billy, che si trovava fra il 1914 e il 1915 come segretario dell’ambasciata di Francia a Palazzo Farnese a Roma. Il conte de Billy traccia, sia del primo ministro marchese di San Giuliano che del ministro degli esteri Sidneyi Sonnino, ritratti molto simpatici. Nei documenti del conte si legge: non si deve dimenticare il ruolo importante giocato dai giornali per l’entrata in guerra dell’Italia. Ad un certo momento era parso che, senza il fervente sostegno che la stampa aveva assicurato ai protagonisti della rottura con l’Austria, poteva avvenire un’esitazione e, chissà, un ritorno al passato. L’aspetto più rimarchevole, mi pare essere il contenuto del primo incontro con Mussolini. Questi, avendo rotto con i socialisti, aveva fondato «Il Popolo d’Italia». Un giorno, a mezzogiorno, nei momenti della battaglia dell’Yser, Mussolini andò a trovare il conte Billy a Palazzo Farnese. Con aria concitata, lo rese partecipe delle sue difficoltà finanziarie. Il conte gli diede immediata assicurazione e si incaricò, con l’aiuto di Charles Loiseau, di convincere Barrère, cosa che non fu facile. L’ambasciata di Francia mise mano al portafoglio, ma Barrère interruppe quella relazione, che gli era sempre pesata. In effetti, Barrère aveva sentito un pericolo nell’interventismo italiano. Egli, alla vigilia del 24 maggio 1915, scriveva: «Nazionale nell’essenza, impregnato dello spirito tradizionale del Risorgimento, il movimento interventista ha assunto una forma inedita, al tempo monarchica e antiparlamentare».

Conferma Renzo De Felice nel suo straordinario lavoro attorno alla figura del Duce, che «Mussolini si rivolse a Barrère solo dopo l’uscita del Popolo d’Italia e che l’ambasciatore francese si dimostrò dapprima riluttante a concedere il finanziamento, dato il carattere sovversivo dell’azione mussoliniana. Più che a Roma, l’accordo venne raggiunto a Parigi, grazie all’aiuto dei socialisti francesi che facevano parte del governo». E che, come tutti i socialisti degli stati in guerra avevano sepolto le teorie pacifiste nel nome delle rispettive patrie in pericolo. Scrivendo le sue memorie, una trentina d’anni più tardi, Robert de Billy faceva eco ai presentimenti dell’ambasciatore Barrère. Per lui, la lotta tra neutralisti e interventisti, della quale era stato testimone, «aveva permesso ai nazionalisti di riconoscere che c’era una feconda collaborazione da intraprendere con i patrioti socialisti di Mussolini, ed è per questo che la descrizione psicologica dei mesi che precedettero il maggio 1915, contiene una indicazione non trascurabile per lo studio delle origini del fascismo». Più esattamente, nel testo francese si legge: “Permis aux nationalistes de reconnaitre qu’il y avait une collaboration fèconde à entreprendre avec les socialistes patriotes de Mussolini, et c’est parceque la description psychologique des mois qui précèdent les semaines de mai 1915 renferme une indication non négligeable pour l’étude des origines du fascisme».

Più o meno in quei giorni Battisti, Tullio Marchetti ed altri progettarono di attaccare una casermetta della gendarmeria austriaca in una zona sopra Cividale per mettere Roma di fronte al fatto compiuto. Erano state raccolte le armi necessarie, affidate a gruppi di uomini che si dovevano addestrare. La data dell’attacco venne fissata per i primi giorni dell’aprile del 1915, ma il progetto venne abbandonato per l’evolversi della situazione politica generale. La guerra contro l’Austria era ormai alle porte.

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