Guardiamo questa foto

di Matteo Lunelli

Maglietta rossa, pantaloncini corti blu, scarpe da ginnastica. Tre anni, forse meno. La faccia nella sabbia e nell’acqua, completamente bagnato. Non sapeva dove stava andando e nemmeno il perché. Forse i suoi genitori si sono inventati una storia, gli hanno parlato di un posto nuovo, magico, con persone splendide. Forse lui gli aveva creduto e si immaginava una nuova casa, dei nuovi amici, dei nuovi giochi. Invece no. Invece non ce l’ha fatta. Invece è morto. Tutto il mondo ora lo conosce, mentre lui non conoscerà mai il mondo.

Guardiamo questa foto, perché è giusto fermarsi almeno un attimo e cercare di capire.

Guardiamo questa foto e pensiamo a cosa sarebbe successo a quel bambino se si fosse alzato, se la foto successiva fosse stata di lui in piedi vivo, accolto da un soldato o da un’infermiera. I suoi occhi, dopo aver visto il mare, avrebbero visto un muro, con adulti che gli dicevano di non oltrepassarlo. Avrebbe visto poi un filo spinato, con adulti che gli dicevano di non oltrepassarlo. Avrebbe visto una penna che scriveva un numero sul suo braccio. Avrebbe visto un atrio di una stazione con tanta gente che non conosceva seduta a terra. Avrebbe visto il vagone di un treno, pieno di gente che non conosceva. Poi, forse, avrebbe visto una casa e un letto. Magari anche dei giochi. Sotto la finestra avrebbe visto gente che urlava che lui non poteva stare lì, che doveva andarsene. Poi magari avrebbe visto delle persone che prendevano lui, la sua mamma, il suo papà e li caricavano su un treno o su un aereo o su una barca, per rispedirli a casa sua. Che ne nel frattempo non c’era più. Chissà se i suoi occhi sarebbero stati pronti per tutto questo.

Guardiamo questa foto e se pensiamo che tanto questo bambino “è abituato alle guerre tribali e a fare la guerra con il machete”, riguardiamola ancora.

Guardiamo questa foto e pensiamo che forse più di un politicante qualsiasi in giacca e cravatta siamo noi a poter fare qualcosa, ogni giorno, anche di piccolissimo, per non vedere mai più queste foto.

Guardiamo questa foto e pensiamo alla prima volta che nostro figlio o nipote ha visto il mare, ha visto la sabbia. Ripensiamo ai suoi occhi sorpresi e curiosi. Ripensiamo al castello costruito e al tuffo fatto. Ripensiamo a quando ha messo la faccia nella sabbia per gioco.

Guardiamo questa foto e pensiamo a tutta la valanga di stronzate che scriviamo su Facebook, inneggiando a un partito o a un altro, schierandoci contro l’accoglienza, facendo i diffidenti sui motivi reali di un viaggio in barca, mettendo in dubbio a prescindere la morale delle persone.  

Guardiamo questa foto e pensiamo che questo bambino non ci avrebbe rubato il lavoro e non ci avrebbe superato nelle graduatorie per pagare di meno la casa o l’asilo.

Guardiamo questa foto e, anche se siamo dei giornalisti, non abbiamo paura di farla vedere in giro. Non c’è deontologia, non ci sono mancanze di rispetto, non ci sono limiti invalicabili, non ci sono carte di Treviso in questo caso.  Nessuno ha rispettato l’essere bambino di questo bambino, l’innocenza di questo bambino, la vita di questo bambino. L’ulteriore mancanza di rispetto di pubblicarne la foto non cambia le cose per lui. Ma forse le cambia per noi. E se, come spero, urta la nostra sensibilità, in questo caso, è un bene.

Guardiamo questa foto, e ricordiamoci che è solo una delle tante foto, che ce ne sono tantissime, solo con soggetti in primo piano molto diversi, grandi e piccoli, bianchi e neri, uomini e donne. Tutti, però, hanno una caratteristica in comune: non respirano.

Guardiamo questa foto e vergogniamoci. Tutti, indistintamente.

Guardiamo questa foto e piangiamo, senza paura di risultare ipocriti. Piangiamo perché forse il papà, la mamma, la nonna, il nonno, il fratello, la sorella di questo bambino non potranno piangere per lui. Non potranno piangere perché forse anche loro non respirano più. E allora facciamolo noi. Tutti.

Guardiamo questa foto e se nemmeno guardando questa foto riusciamo a essere più umani e più civili, allora interroghiamoci, profondamente, su cosa siamo.

Ecco la foto. Guardiamola. Un minuto, guardiamola. Poi possiamo tornare tranquillamente a vivere la nostra vita, noi che ce l'abbiamo, e a giudicare quella degli altri, anche di chi non ce l'ha.

[[{"type":"media","view_mode":"media_original","fid":"539666","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"394","width":"698"}}]]

comments powered by Disqus