Al via la Brexit, ora Londra soffre

Al via la Brexit, ora Londra soffre

di Gianni Bonvicini

Pochi politici in Italia, tutti presi come sono dalle beghe interne, se ne sono accorti, ma domani 25 novembre un Consiglio europeo straordinario darà il suo avvallo ad un fatto storico: l’avvio formale del divorzio della Gran Bretagna dall’Unione europea ed il primo caso di abbandono da parte di un paese membro. Un autentico e drammatico colpo politico e di immagine per l’Unione europea. Ma se da parte Ue il voto di domenica nel Consiglio sconta solo qualche tensione tattica, l’avvicinarsi del divorzio da Bruxelles ha creato a Londra una mezza rivoluzione politica. Teresa May ha dovuto fare i salti mortali per portare a termine il negoziato con l’Ue.

Fra ministri che si sono dimessi, malcontento popolare sull’aumento dei prezzi, rischi non ancora superati di voto di sfiducia e calo del valore della sterlina, la premier inglese è riuscita alla fine a concordare con la controparte europea una bozza di «accordo di uscita».

Una bozza di «accordo di uscita» dall’Unione europea di ben 585 pagine, accompagnata da una «dichiarazione politica», di 26 pagine, sui futuri rapporti commerciali fra l’Ue e la Gran Bretagna, ormai paese estraneo all’Unione. Le prossime tappe sono il 29 marzo 2019, quando l’abbandono di Londra sarà definitivo, e il 31 dicembre del 2020 data entro la quale si dovrebbe firmare un nuovo patto di partenariato, come tratteggiato domenica prossima nella dichiarazione politica.
Malgrado la mole dei documenti prodotti, molti punti sono ancora irrisolti come ad esempio il confine fra Belfast e Dublino in Irlanda o lo status di Gibilterra (the Rock), contesa ormai da secoli fra Inghilterra e Spagna, entrambi fonte di possibili ulteriori problemi negoziali. Ma quello che meno appare in superficie, in questi lunghissimi mesi di trattative, è il bagno di realismo che ha dovuto fare Londra.

Abbandonati i sogni di ritornare ad essere una potenza globale, finalmente con le mani libere da Bruxelles (i cattivi tecnocrati!), Teresa May si è trovata alle prese con le conseguenze pesanti e negative di un matrimonio fallito: dai 41,4 miliardi di euro che dovrà versare al bilancio comunitario per impegni futuri già presi con l’Ue all’obbligo di dovere accettare le decisioni di Bruxelles fino al 31 dicembre 2020, senza poter prendere parte alla loro elaborazione e approvazione. Neppure Londra si era resa conto della massa di rapporti giuridici, finanziari, amministrativi e di regole commerciali che la legano strettamente all’Unione. Si calcola che nel Regno Unito vi siano circa 5000 leggi comunitarie in vigore. In definitiva la «exit» si presenta come estremamente onerosa e mai del tutto definitiva. Annunciarla a gran voce è facile, metterla in pratica è tutt’altra cosa. Dovrebbe valere come lezione per i vari Di Maio e Salvini, allorquando dichiarano di «fregarsene» di Bruxelles, facendo ogni tanto balenare all’orizzonte anche la possibilità di una Italexit.

Oltretutto, ed è ciò che Londra sta sperimentando sulla sua pelle, all’interno dell’Ue magari si conta relativamente poco, ma fuori si conta meno del due di picche, con buona pace dei sostenitori, non solo nostrani, di politiche nazionaliste. Ma se a Londra si soffre, apparentemente i 27 paesi membri dell’Ue si avviano al Consiglio di domenica con un consenso di fondo, fatti salvi colpi di scena dell’ultimo minuto. Neppure la recente minaccia del premier spagnolo Pedro Sànchez di bloccare l’accordo sul tavolo del Consiglio europeo, nel caso non si tenga separato lo status di Gibilterra dai futuri rapporti UE/Gran Bretagna, sembra modificare il quadro di rassegnato consenso sul distacco definitivo di Londra da Bruxelles. Divisi su quasi tutto, dalla politica di immigrazione alle misure sanzionatorie contro la Russia, dal raddoppio della pipeline del North Stream alle decisioni per il completamento dell’unione bancaria, i 27 non hanno dimostrato rilevanti dissensi sul procedere del negoziato con Londra.

Eppure qui non sono in gioco solo i nuovi rapporti finanziari e commerciali fra il blocco dei 27 dell’Ue e Londra, ma il destino stesso del processo di integrazione europea che da questo divorzio esce certamente modificato, se non addirittura ridimensionato. Se questo inaspettato consenso fra i 27 fosse orientato ad aprire la strada ad un balzo in avanti dell’integrazione, l’uscita inglese potrebbe perfino essere positiva. Alcuni segnali si intravvedono nelle proposte franco-tedesche sulla difesa europea o sul voto a maggioranza qualificata nel campo della politica estera o ancora sull’idea di rafforzare l’Eurozona con un bilancio ad hoc per i suoi membri.

In altre parole, liberi dal peso di una Londra quasi sempre con il freno a mano tirato e in posizioni di retroguardia, gli altri paesi europei avrebbero finalmente l’occasione di muoversi verso nuovi progetti di maggiore integrazione. Su questa linea si è schierato lo stesso leader spagnolo Sànchez, tanto scettico su Gibilterra quanto pronto ad allearsi con Francia e Germania per il grande balzo in avanti. Ma gli altri paesi che dicono? L’Italia, ad esempio, nel suo attuale euroscetticismo e di confusione di idee sull’Europa è completamente assente da questo dibattito, al punto che Sànchez propone apertamente la Spagna come credibile sostituto di un’Italia populista e scettica. Scetticismo che si può tuttavia estendere anche ad altri paesi dell’Ue, a cominciare dal gruppo di Visegrad contrario un po’ a tutto, salvo a prendere i soldi da Bruxelles, considerato una specie di bancomat.

Difficile, quindi, che dall’uscita di Londra nasca una forte spinta per procedere oltre l’attuale stadio di integrazione. A meno che non si torni alla vecchia ipotesi di un’Unione a più velocità con un gruppo centrale che si stacchi da tutti gli altri e decida di adottare un nuovo trattato separato. Ipotesi oggi politicamente poco praticabile se non si vuole spaccare definitivamente l’Unione dei 27 alla vigilia delle elezioni del Parlamento europeo. Ma idea che potrà eventualmente ridecollare una volta che siano più chiari i rapporti di forza nel nuovo Parlamento e la reale volontà di alcuni paesi membri a procedere verso una maggiore e necessaria integrazione. Sarebbe davvero un suicidio politico per l’Italia, paese fondatore, non farne parte.

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