Austriacanti: storia di identità e di guerre

Austriacanti: storia di identità e di guerre

di Camillo Zadra

Merita segnalare ai lettori dell’Adige un libro, uscito di recente, che abbiamo presentato a Rovereto. È il romanzo storico di Giorgio Postal e Mauro Marcantoni «Austriacanti - Storia di persone, di guerra e di identità». Come direttore del Museo Storico della Guerra ritengo importante inquadrare questo libro. In esso è descritto il cataclisma politico avvenuto.

Cataclisma originato dal dissolversi degli imperi dell’Europa centro-orientale al termine della Prima guerra mondiale. Cechi e slovacchi, polacchi, «slavi del sud», «italiani d’Austria» (e i trentini tra questi), videro sparire dal loro orizzonte l’aquila bicipite sostituita da altre icone e dall’oggi al domani dovettero riconoscersi in nuove identità nazionali. Ma quello che i trattati di pace del 1919 stabilirono come atto di politica internazionale, per molte migliaia di persone fu un’esperienza diretta e personale già durante la guerra.

Fu così per migliaia di soldati trentini prigionieri dei russi, i quali già nel 1915 furono posti di fronte al dilemma se continuare a rimanere rinchiusi nei grandi campi di prigionia come cittadini austriaci, o essere liberati e trasferiti in Italia come cittadini italiani. Una parte di essi accettò con entusiasmo la seconda opzione, altri dissero di no, altri ancora furono più che esitanti. Per questi ultimi dover scegliere fu un trauma: messi di fronte all’alternativa, resistettero a lungo («fedeltà» e «tradimento» erano termini dal doppio opposto valore) e, alla fine, scelsero sotto la pressione di avvenimenti e di circostanze cogenti. Per comprendere questo dramma collettivo, che Postal e Marcantoni ritengono essere stato sottovalutato dagli storici, ci voleva uno sguardo capace di entrare nel cuore delle persone: un romanzo storico per l’appunto.

Il titolo «Austriacanti» è dunque provocatorio e per i due autori la vicenda storica della «scelta nazionale» rappresenta la cartina di tornasole per cogliere, seguendo i comportamenti, gli stati d’animo, le scelte di una piccola folla di personaggi, la vicenda dell’intera comunità trentina. Postal e Marcantoni – spero dicendo questo di non forzare la loro penna - ritengono che quel lontano evento abbia avuto un carattere fondativo nella storia della società trentina e che, come i ruderi di forti e trincee sulle nostre montagne rappresentano la traccia fisica di quella guerra, anche quella «scelta» possa aver lasciato un segno. Indagando quel dilemma e quella frattura, cercano in nuce un tratto dell’identità dei trentini, qualcosa che la guerra avrebbe in parte forgiato, in parte svelato.

Il romanzo parte da un mondo in cui la vita scorre tranquilla. I protagonisti sono accomunati da valori che danno forma al tessuto sociale: un’idea forte di famiglia, una religiosità diffusa, sentita e praticata (che la guerra tuttavia farà vacillare), una disposizione ad obbedire appresa sui banchi di scuola e interiorizzata. «Erano estranei che avevano un destino comune, non solo la meta». Quale destino? L’esperienza della guerra e l’umiliazione della prigionia, una guerra «che nessuno avrebbe voluto combattere», una pagina di vita «che nessuno avrebbe voluto scrivere». «Forse per questo», pensò Gioacchino [uno dei protagonisti], «si è già creato un legame fra noi, che in altre circostanze non ci saremmo mai trovati e neppure avremmo avuto niente in comune».

Del destino comune fa parte la condivisione del senso di colpa e del rimorso per aver ucciso. «Quel giorno, per la prima volta, Ermanno aveva sparato e ucciso. […] Mentre si faceva il segno della croce, si era sentito morire dentro. […] «Mai più» diceva tra sé e sé”. Un proposito difficile da rispettare in guerra: «Ogni volta la voce della coscienza gli domandava: «che cosa hai fatto, Ermanno?». Un rimorso antico come le parole che accompagnano Caino.

Per un altro personaggio - Isidoro – il «mai più» nasce dall’aver guardato negli occhi un russo che gli puntava l’arma, pronti l’uno e l’altro a fare fuoco. Ma il russo non sparò e quando si allontanò «Isidoro restò fermo, con il fucile puntato nel vuoto […]. Decise che la sua guerra era finita. Sì, sarebbe fuggito, avrebbe disertato o forse si sarebbe consegnato ai russi». Nel destino comune c’è dunque un confine anche morale intravisto nel trovarsi «a metà tra la vita e la morte, come in un limbo».

Al fronte e in prigionia franano convincimenti un tempo saldi: «E poi Patria che cosa significa?» – si chiede Ermanno, in una trincea sulla riva del fiume San – «Qual è la mia patria?» Dopo poche settimane passate al fronte, lui non era più sicuro del significato di quella parola. «La mia patria è il paesino in cui sono nato, dove vivono i miei cari, in mezzo a montagne eterne e grandiose; quelle sono la mia patria, l’unica alla quale sarò sempre fedele e che sarei fiero di difendere e custodire», scrive. Ma nel frattempo, in quella trincea diventata essa stessa un patibolo, «più il tempo passava, più si rinsaldava il senso di fratellanza, una solidarietà che andava oltre il cameratismo tra soldati.

Non era amicizia. Era una profonda condivisione, generata dalla sofferenza». È l’idea di una comunità nuova. Anche Isidoro, di fronte alla scelta se rimanere prigioniero in Russia o ritornare come soldato italiano, nicchia: «Io non voglio tornare a combattere. Ne ho viste troppe e poi che cosa succederà a mia madre se divento un traditore?». Alla fine, tra molte resistenze, accetta, ma solo nella prospettiva di portare a casa Sonja, la ragazza russa che ha sposato e che gli darà un figlio. Invece «la grande maggioranza tacque o dichiarò la propria fedeltà all’Imperatore».

Gioacchino pensava che «sarebbe stato un tradimento delle tradizioni della sua famiglia e della sua gente fare una scelta che non si sentiva minimamente di condividere, ma al contempo avvertiva dentro di sé una rabbia profonda, un sentimento di repulsione verso chi aveva deciso quella guerra sulla sua pelle». Sentiva che «stava diventando una persona diversa. I suoi amici e i suoi familiari non lo avrebbero riconosciuto. Nemmeno lui si riconosceva. […] Stava cambiando la percezione che aveva del mondo. […] Non era più il pacifico padre di famiglia, abituato alla quiete della montagna e al ritmo lento della natura. Era un uomo pronto ad affrontare tutte le traversie». Dalla Russia torneranno meno della metà dei personaggi del romanzo. A pareggiare il numero sarà Sonja, la ragazza russa che, finita la guerra, arriva in Trentino sulle tracce di Isidoro di cui ignora la morte. E sarà Gioacchino, il personaggio che aveva aperto il romanzo, ad accoglierla ed a chiudere la narrazione: «C’è qualcuno che vi aspetta, qui. Non aver paura», disse soltanto: «Non aver paura. Vi porto a casa». Tra le fondamenta di questa «casa» - un Trentino da ricostruire - sta l’esperienza di sofferenza, di perdita e di compassione vissuta attraversando la guerra.

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