Michele Scarponi e quell'ultimo sorriso

Michele Scarponi e quell'ultimo sorriso

di Maurilio Barozzi

L’sms di un amico è arrivato ieri alle nove e cinquanta: «È morto Michele Scarponi». Solo il giorno prima, sulle strade del Tour of the Alps, il ciclista marchigiano aveva fatto il diavolo a quattro, spendendo fino all’ultima goccia di sudore. Aveva attaccato sul Bondone, aveva ricucito gli strappi degli avversari, aveva stretto i denti.

Terminata la tappa verso le quattro del pomeriggio, si è sorbito cinque ore di auto per tornare nella sua Filottrano, salutare i due gemellini e la moglie. Qualche ora di sonno e poi di nuovo in bici ad allenarsi per il Giro d’Italia. Ma anziché la forma per fare il capitano alla corsa rosa, si è trovato in faccia un furgone che lo ha ucciso sul colpo.

«Poteva riposarsi almeno mezza giornata dopo quello sforzo e tardare all’appuntamento col destino?», mi sono chiesto. Sbagliato: era proprio questo il suo essere professionista serio, campione: per nessun motivo saltava un allenamento, tanto più ora che, a quasi 38 anni, si apprestava a correre il Giro d’Italia come capitano dell’Astana.

La sorte è maledetta: dopo tre anni e mezzo era tornato a vincere proprio lunedì scorso, a Innsbruck, sulle strade dell’ex Giro del Trentino. «Che bello alzare le braccia sotto il traguardo. È una sensazione che quasi non ricordavo più. Dedico la vittoria a Giacomo e Tommaso, i miei due gemellini - aveva detto -: ogni volta che torno a casa mi chiedono: ma tu non vinci mai? Da oggi sanno che anche papà è capace di vincere». Purtroppo hanno solo avuto il tempo di dargli un abbraccio, venerdì sera, prima che la morte se lo portasse via. Dopo la vittoria, aveva anche ricordato la sua terra, le Marche, colpita dal terremoto: insomma, un ragazzo sensibile che mai dimenticava gli altri.

E proprio agli altri è stata votata tutta la sua carriera. Più gregario che capitano. Lo si vedeva nel quotidiano, lo si era capito già in una delle sue fulminanti battute: cosa avresti fatto se non fossi stato un ciclista? Gli chiedemmo nel 2011, quando vinse il Giro del Trentino. «L’ultras dell’Inter» disse lui ridacchiando. Era una freddura, ma lasciava trasparire come lui si sentiva parte di una comunità e non era attratto dalle luci della ribalta del protagonista.

La battuta sapida, la simpatia, erano la sua cifra: l’altro giorno, a chi gli chiedeva del Giro d’Italia del 2011 assegnatogli dopo la squalifica di Contador, rispose col solito sorriso: «Non ho mai vinto il Giro d’Italia: non ho mai alzato il trofeo e, soprattutto, non ho mai ricevuto l’assegno». Era il suo modo per criticare con eleganza questo ciclismo che vive fuori sincrono i momenti delle premiazioni e i successivi albi d’oro.

Conobbi Michele nel 2007, poco prima della squalifica che lo fermò un anno e mezzo. Poi ci ritrovammo a Plan de Corones mentre lui, nella neve, provava la cronoscalata che si sarebbe corsa un paio di mesi dopo, al Giro d’Italia. Sull’ascensore mi confessò, con aria grave: «Il mio team spera che ci sia la neve anche a maggio, in gara». «Perché?», domandai stupito. «Perché hanno Scarponi» e scoppiò a ridere.

Scarponi ha vinto parecchio, ma valeva molto di più di quello che dice il suo palmares: come ciclista basti dire che è stato decisivo nell’aiuto a Nibali a vincere il Giro, l’anno scorso. Come uomo aveva le doti migliori che si possono cercare: con le sue spiritosaggini metteva allegria a tutta la carovana - corridori, meccanici, giornalisti - e la sua sensibilità era sempre pronta ad affiorare discreta, senza mai farsi tronfia.

Lunedì scorso, a Innsbruck, vinta la sua ultima corsa, regalò il mazzo di fiori a Lina Ioppi, conosciuta nei lunghi anni di presenza al Giro del Trentino, prima di dedicare la corsa a figli, moglie e alla sua terra martoriata. È stata l’ultima vittoria, non sarà mai dimenticata, come non sarà dimenticato Michele, l’aquila di Filottrano, ora in volo sui pendii più alti.

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