Voucher: referendum inutile e dannoso

Voucher: referendum inutile e dannoso

di Pierangelo Giovanetti

Settimana prossima si saprà se il governo Gentiloni con un decreto legge riuscirà a porre alcuni correttivi alla normativa sui voucher, evitando così l'inutile e dannoso referendum promosso dalla Cgil, volto ad abrogare in toto uno strumento che, pur con alcuni eccessi da correggere, è risultato assai utile per fare emergere il lavoro nero e regolarizzare i lavori saltuari.

Come già sulla modifica dell'articolo 18, che ha dimostrato nei fatti la sua efficacia creando (insieme alle detrazioni fiscali) oltre 650mila posti di lavoro stabili, la Cgil torna a incapponirsi su battaglie ideologiche di bandiera alimentando populismo rancoroso invece di puntare - come dovrebbe fare un sindacato serio - sul miglioramento dello strumento, limitandone i settori di applicazione e il tetto massimo percepibile dal singolo lavoratore, mirando a potenziare l'attività ispettiva.

L'ipocrisia della Cgil è dimostrata dal fatto che dei voucher ne ha finora fatto grande uso al suo interno per retribuire prestazioni occasionali, in questo in buona compagnia anche con il resto del sindacato.
In realtà il voucher è uno strumento buono e utile, da anni utilizzato nei vari paesi d'Europa.
Fa emergere dal lavoro sommerso tutta una serie di prestazioni saltuarie, sia nei lavori domestici che in quelli stagionali, per esempio in agricoltura e nella vendemmia, o nell'organizzazione di eventi. Si calcola che siano 800mila le persone emerse dal sommerso grazie ai voucher.

Il compenso di 7,5 euro netti l'ora è vicino agli 8,5 euro del salario minimo legale tedesco. È un modo per retribuire giovani e pensionati per impieghi limitati nel tempo (pensiamo alle lezioni private), dando tracciabilità al lavoro minore, grazie alla comunicazione preventiva del datore via sms o mail.

Ora, l'estensione dell'utilizzo dei voucher agli impieghi non saltuari avvenuta ai tempi del governo Monti ha in parte favorito usi impropri e abusi. Si tratta quindi di apporre modifiche migliorative (per esempio un freno nei settori ad alto rischio infortunistico, dall'edilizia al metalmeccanico), attivando i necessari controlli da parte di Inps e Inail, magari accompagnandoli da pesanti sanzioni.
O introdurre limiti all'utilizzo mensile anziché annuale, come suggerito da Tito Boeri. Ma certamente non abolirli come pretende di fare la Cgil, facendo finta di non vedere il lavoro nero.
Tra il resto, il tema dei voucher, sbandierato come una questione di vita o di morte, interessa una ristretta nicchia di lavoratori (lo 0,3% delle ore lavorate in Italia, dati 2015), ma copre ambiti che altrimenti non avrebbero alcun contratto.

Al di là del fumo ideologico, l'impuntatura della Cgil («Abolirli è una questione di civiltà», ha dichiarato Landini della Fiom lunedì scorso a Trento) ripropone una questione di fondo che in questi anni ha solo ostacolato la creazione di lavoro nel nostro Paese: l'eccesso di ideologizzazione del dibattito sul lavoro. Qualche esempio per capire.

Avversata come la fine dei diritti del lavoratore, la riforma del Jobs Act ha - dati alla mano - favorito l'occupazione stabile, con un significativo aumento dei contratti a tempo indeterminato, estendendo gli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori. I suoi effetti pieni si dispiegheranno nel tempo, ma già ora possiamo dire che, da quando c'è il Jobs Act, l'occupazione è cresciuta più del reddito nazionale e ha dato stabilità all'occupazione stimolando le imprese a investire sulla formazione invece che sul turn over di contratti a tempo determinato, migliorando in prospettiva produttività e salari.

La flexicurity introdotta (in linea con quanto avviene nella maggior parte dei Paesi europei), porta a tutele robuste (compresi i servizi) in caso di disoccupazione. Ha posto le basi per il superamento della schizofrenia fra chi aveva il lavoro a tempo indeterminato, con ammortizzatori assai generosi, e i contratti a termine o atipici, privi di qualsiasi protezione. Alla faccia degli spettri e degli scenari apocalittici sventolati dalla Camusso, i dati Istat rilevano al contrario come dall'estate 2014 alla fine del 2016 gli occupati sono aumentati di circa 700mila unità.

Effetti positivi sono misurabili a distanza anche per quanto riguarda la legge Fornero del 2012 che ha limitato drasticamente la discrezionalità del giudice nel disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, ponendo limiti precisi. Fu accolta dal sindacato come lo «smantellamento delle protezioni». In realtà ha, finalmente, sbloccato la patologia dei contenziosi, automatici di fronte ad ogni licenziamento, a prescindere dalle ragioni che l'avevano determinato. Dal 2012 al 2016 le cause di lavoro sono scese del 33%, e le liti sulla cessazione del rapporto di lavoro sono calate del 69%, svuotando i tribunali di cause improprie e rendendo più vantaggioso mettersi d'accordo fra lavoratore e impresa, invece di adire alle vie legali. Al di là dell'ubriacatura di slogan ideologici e manifestazioni di piazza del tempo, non esiste alcuna evidenza che la legge abbia causato un aumento di licenziamenti in rapporto alle assunzioni. Semmai il contrario, come comprovano i dati Istat.

Altro esempio di eccesso di ideologizzazione nel confronto sul lavoro, che frena soltanto le assunzioni e l'occupazione e non porta alcun vantaggio al lavoratore, è quanto accadde alla Fiat di Pomigliano d'Arco, quando la Fiom-Cgil pretese e perse il referendum sull'accordo sindacale che introduceva i team di produzione. Allora Landini minacciava un futuro alla Fiat da «operai cinesi» sfruttati. Anche in questo caso i fatti hanno dimostrato l'esatto contrario, come con grande lungimiranza i lavoratori della Fiat avevano capito bocciando sonoramente le battaglie di retroguardia della Cgil. Oggi a Pomigliano è finita la cassa integrazione, e a Melfi la Fiat ha assunto un altro migliaio di persone, dimostrando anche che le nuove tecnologie dell'industria 4.0 portano alla creazione di lavoro non alla sua distruzione.

Gli operai hanno scoperto che, grazie a quell'accordo firmato da Fim e Uilm, faticano di meno e partecipano di più grazie ai team di produzione che hanno sostituito le gerarchie piramidali della fabbrica fordista. Insomma un buon accordo, che ha incrementato il lavoro e favorito i lavoratori. Altro che sfruttamento indiscriminato, paventato dalla Fiom.
Ecco perché il lavoro non ha bisogno di simboli e bandiere del secolo scorso, a cui le frange più retrive del sindacato si aggrappano (non tutte per fortuna, e anche all'interno della Cgil vi è chi sa guardare con visione al futuro, e non soltanto ai fasti tramontati di un'epoca che non esiste più).

Non servono referendum sull'articolo 18 o sui voucher, ma concretezza di approccio sul luogo di lavoro ricercando mediazioni alte tra le esigenze dei lavoratori e quelle delle imprese. Servono contratti a livello aziendale, legati alla produttività e alla meritocrazia, anche nel pubblico impiego. Servono decentramento e autonomia territoriale, così da favorire la redditività dell'impresa, redistribuendo parte del valore aggiunto fra i lavoratori.
Altro che referendum di facciata, per prendersi rivincite politiche, inutili ai lavoratori ma funzionali solo alle nomenclature sindacali collaterali a questa o quella fazione partitica o scissionista.
Un sindacato moderno e efficace si misura su questo. È la premessa per poter creare nuovo lavoro invece di inseguire i fantasmi del passato.

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